di Marcello Marino

imagesCA3ENZS2Ma davvero qualcuno pensa che esista o possa realizzarsi questa cosa chiamata “meritocrazia”? E davvero c’è chi è convinto che un sistema meritocratico sia un sistema “giusto”? Eppure basterebbe soffermarsi a riflettere sulla nozione di uguaglianza – uno dei princìpi cardine delle moderne democrazie – per scorgere della meritocrazia immediatamente tutti i suoi limiti. In un paese (potremmo anche dire in un mondo) caratterizzato da evidenti disuguaglianze, come si realizza il merito? Possiamo dire che tutti partano da una condizione paritaria e che quindi sarà il percorso individuale, l’impegno soggettivo a determinare i risultati? Possiamo altresì immaginare che a parità di capacità individuali tutti, ma proprio tutti, avranno uguali condizioni per poterle realizzare? Ma, soprattutto, siamo davvero convinti che quello straccio di curriculum che fino a qualche giorno fa non valeva niente – anche se ricolmo di esperienze e qualità documentate – ora, per una scelta pseudo-politica, si reincarna in un codice di riconoscimento oggettivo e premiante?

Nel calderone dei valori – veri o presunti – si mette di tutto, spesso ignorando le contraddizioni e le opposizioni. Piacciono così tanto certi concetti che si aderisce d’ufficio: perché quella è la linea generale di chi la pensa in altri argomenti come noi; perché così fanno altri popoli che riteniamo più civili; perché non abbiamo di meglio da offrire.

Intanto è singolare rilevare che, tra i più strenui fautori della meritocrazia, figurano proprio coloro che ne sarebbero risparmiati, e non certo per meriti acquisiti documentabili (difficile, per esempio, dire in che misura c’entri la meritocrazia con una bella fetta di incarichi istituzionali, ma questo sarebbe un gioco troppo facile).

C’è però anche un fondo di presunzione nel sostenere la causa della meritocrazia, che fa trapelare come in ognuno si annidi la convinzione di essere tra coloro che in uno stato meritocratico certamente ricoprirebbero ben altri ruoli. E c’è un utopismo ammantato di modernismo, cinico, che sembra accettare l’idea di un nuovo modello verticale di società, fatto di valutati e valutatori ma, e qui c’è del miracoloso, tutti onesti trasparenti e consapevoli. Già, perché si presuppone che si realizzi finalmente l’incontro tra sistema e cultura, dal momento che la meritocrazia non cancella un certo grado di arbitrarietà relativamente al giudizio sul valore dell’esperienza di un altro, e quindi richiede una fiducia a priori fra le parti.

Il riconoscimento del merito altrui si fonda, essenzialmente, su due elementi: l’onestà intellettuale e l’interesse comune. Pensare che ci sia un grado di oggettività tale da eliminare queste due aspetti così “soggettivi” è solo uno dei tanti prodotti dell’attuale demagogia. D’altronde tutti i concorsi si basano già su princìpi meritocratici, e per ogni concorso fiumi di ricorsi (università; istituzioni pubbliche locali e nazionali; aziende partecipate).

Nell’ipotesi di Young (Michael Young, Rise of the Meritocracy, fu lui ad usare il termine per la prima volta nel 1958) il sistema meritocratico rappresenta un rischio, non lascerebbe presagire niente di buono, proprio perché faciliterebbe ulteriormente la divisione di classe e le carriere dei più ricchi. E non è forse vero che la maggior parte dei manager di grandi aziende arriva da percorsi di studio (master nelle più quotate università del mondo e formazione personale avanzata) che pochissimi possono permettersi? Si obietterà che la cosa va riportata a più basali faccende umane e a ruoli professionali anche non dirigenziali ma lì la cosa diventa ancora più complicata e, anzi, rivela tutti i suoi potenziali abusi.

Un esempio su tutti è proprio la minacciata riforma della scuola dell’attuale governo: l’idea di un sistema compiutamente meritocratico poggerebbe sul potenziamento e l’accentramento dei poteri nelle funzioni del preside, che sceglie i “suoi” docenti, attribuisce e revoca incarichi. Correttezza formale vuole che nessuno riporti la questione alle bassezze di cui molti individui sono capaci (non credo di dover ricorrere ad esempi per sostenere questa ipotesi). Però, per un miracolo antropologico senza precedenti nella storia, tutti i difetti dell’homo italicus verrebbero immediatamente cancellati da una scelta formale (la meritocrazia) e da un aspetto cruciale della sua interpretazione (maggior potere decisionale a un singolo), il tutto sullo sfondo del sicuro interesse pubblico (l’educazione e l’istruzione delle nuove generazioni) che, senza dubbio, muoverebbe e indirizzerebbe le decisioni del super-preside.

Ma, ancora più raccapricciante, l’idea che il necessario rinnovamento della scuola non si sostanzi nella sua funzione educativa ma in quella gestionale e organizzativa, che garantirebbe anche l’adeguatezza dei contenuti, dei processi di apprendimento, della revisione dei programmi e delle materie, e di tante altre quisquilie di cui la furia rinnovatrice non osa interessarsi.

Il tutto in nome della rivoluzione meritocratica, trasformando così una nozione che nasce con un’accezione negativa in un mito (quasi) di massa.

 

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