di Alessandro Campi
L’immigrazione clandestina che arriva via mare dalle coste africane, in quantità crescente e ormai allarmante, è una tragedia doppia. Lo è – sul piano umano e esistenziale – per coloro che, scappando da conflitti e carestie e sradicandosi dalle proprie appartenenze ancestrali, si consegnano ai moderni mercanti di uomini accettando il rischio di morire in mare e inseguendo il miraggio di un relativo benessere. Ma lo è anche, sul piano sociale e presto anche su quello politico, per quei territori –come appunto è il caso dell’Italia – dove migranti e fuggiaschi approdano non per essere indirizzati verso una qualche occupazione o integrati o dignitosamente sistemati, ma semplicemente per essere ammassati in strutture spesso inadeguate o improvvisate, per essere abbandonati a se stessi o consegnati alla manovalanza criminale, in una situazione di emergenza e allarme, ormai alimentato dalle stesse istituzioni, che non promette nulla di buono.
Evocare il primo dramma sollecita i buoni sentimenti e mette al riparo da ogni possibile critica la coscienza dei singoli e quella dei responsabili politici. Richiamare l’attenzione sul secondo espone fatalmente all’accusa di voler strumentalizzare una catastrofe umanitaria per bieche ragioni politiche. Ma le cose non stanno così: nero o bianco, il buonismo che sconfina nell’ipocrisia o il cinismo che sconfina nell’irresponsabilità. Il buon senso diventa xenofobia solo quando la politica ignora colpevolmente la realtà delle cose. La direttiva del Viminale ai prefetti, invitati a requisire locali e strutture ricettive per sistemarvi le migliaia di migranti che ci si aspetta per le prossime settimane e che si pensa di ospitare persino nelle caserme, fa d’altronde capire quali riflessi negativi nella vita pubblica italiana ci si debba attendere da una situazione prossima a diventare ingovernabile: lo Stato italiano dovrà improvvisare tendopoli e campi profughi che suoneranno inevitabilmente indegni di un Paese civile, i fautori delle porte chiuse e dello scontro tra civiltà avranno di che alimentare in modo convincente la loro propaganda, i cittadini si chiederanno attoniti e preoccupati se proprio non esiste un altro modo, più razionale e civile, che susciti in loro minori ansie e che non provochi perdite ricorrenti di vite umane, per gestire gli inevitabili movimenti migratori.
Nel 2014 ci sono stati in Italia 170.000 sbarchi: quanti se ne erano avuti nei sei anni precedenti ed era sembrato un record non replicabile. Nel 2015, con quasi ventimila arrivi già nel solo periodo invernale, gli sbarchi potrebbero essere molti di più, visto che in Africa e nel Vicino Oriente si sono aperti nel frattempo nuovi fronti di guerra, mentre quelli già esistenti si sono cronicizzati o peggio acuiti. E molti di più rispetto al passato (visti gli oltre 500 morti negli ultimi quattro mesi) potrebbero anche essere coloro che finiranno per inabissarsi, senza mai vedere la terra promessa, nelle acque del Mediterraneo: quel confine fluido che separa l’Europa dal continente africano sul quale solo l’Italia esercita tuttavia la sua azione di soccorso e contenimento. Generoso il primo, inutile il secondo, mentre il resto dei nostri vicini resta a guardare o impartisce lezioni da lontano.
Si è capito da un pezzo che l’origine di questa incombente marea umana, se sono vere le cifre ufficiose che circolano, di cinquecentomila o forse più disperati ammassati nei campi profughi e pronti agli imbarchi, si trova in Libia. Dove l’Italia, sebbene avrebbe a questo punto un vero e proprio interesse nazionale a farlo, non può intervenire da sola: per ragioni politiche, dal momento che scateneremmo reazioni strumentali ed ideologiche in quanto ex-colonizzatori, e per ragioni tecnico-logistiche, dal momento che bloccare le partenze dalle coste libiche richiede uno spiegamento di mezzi e risorse che non possediamo. Al tempo stesso, non abbiamo la forza diplomatica sufficiente per favorire un processo di pacificazione interna e di stabilizzazione politica che, ci spiegano, è la condizione indispensabile per sottrarre la Libia allo strapotere delle milizie armate e delle tribù in lotta tra di loro: quelle stesse che in questo momento, nel vuoto di sovranità che si è creato dopo l’eliminazione di Gheddafi, controllano e gestiscono il traffico di esseri umani.
Ma l’Europa continua a non volerne sapere o a ricorrere a soluzioni palliative, come dimostra il fallimento nella sostanza dell’operazione Triton: ben ventinove Paesi coinvolti, ma con un budget inferiore di due terzi rispetto a quello stanziato dalla sola Italia per Mare nostrum. Con in più la pretesa di limitarsi al solo pattugliamento delle acque e al controllo delle frontiere tralasciando la vera emergenza, che come si vede in queste ore è quella dei soccorsi in mare. Questi ultimi – come la gestione degli arrivi a terra – sono rimasti un’incombenza italiana dal punto di vista logistico e, in gran parte, anche economico. Un danno al quale si aggiunge la beffa di vedersi spesso indicati dai professionisti europei dell’umanitarismo quando va bene come degli incompetenti lamentosi e quando va male come degli aguzzini che non rispettano i diritti umani.
Questa Europa che ancora non ha trovato un modo comune per gestire con criteri più razionali i flussi migratori e per dare una soluzione politica alle situazioni di crisi – militare o economica – da cui nascono nell’area del Mediterraneo le emergenze umanitarie che spingono masse di disperati alla fuga, è quella stessa – per capirci – che in questi anni ha più volte lanciato l’allarme contro l’ascesa dei movimenti politici estremistici e xenofobi. All’epoca del governo Monti si parlò persino di istituire un osservatorio europeo sul fenomeno del populismo, proposto proprio dal nostro Presidente del Consiglio. Ma non ci si rende conto, quando si ragiona da tecnocrati, che è proprio l’inerzia politico-decisionale delle istituzioni comunitarie in materia di immigrazione – un’inerzia che spesso somiglia a indifferenza ed egoismo – ad alimentare elettoralmente i partiti che lucrano sulla paura e sul sentimento di insicurezza dei cittadini. Gridare al lupo e poi dargli da mangiare è una delle tante contraddizioni che i Paesi dell’Unione europea ancora non sono riusciti a risolvere.
In attesa che qualcosa cambi, innanzitutto sul piano delle scelte politiche continentali, all’Italia non resta che assolvere ai suoi doveri morali di assistenza al prossimo, pur sapendo che prima o poi, così continuando, finiremo per pagarne un prezzo interno assai salato. Ma prima che ciò accada non converrebbe alzare la voce con i nostri alleati e inchiodarli alle loro responsabilità? Mentre ci si vanta di star cambiando verso all’Italia, su un tema così spinoso e vitale come la politica per l’immigrazione forse si potrebbe tentare di far cambiare verso anche all’Europa.
*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 15 aprile 2015.
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