di Danilo Breschi

ISIS-Expansion-IP“Sunniti e sciiti non sembrano appartenere alla stessa religione. Tutto li divide, persino i colori…”. Così osservava nel 1885 l’archeologa francese Jane Dieulafoy. In effetti, la comunità islamica si divise quasi subito dopo la morte di Maometto nel 632 d.C., anno primo del calendario musulmano. Il problema era quello della successione, dal momento che al Profeta non erano sopravvissuti figli maschi. Alcuni compagni di Maometto volevano che il primo Califfo (dall’arabo khalifa: “successore” o “vicario”) fosse il genero Alì, mentre la maggioranza scelse Abu Bakr, amico nonché suocero del Profeta, avendo sposato la figlia Aisha. Solo dopo altri due successori, Omar e Othman, Alì divenne Califfo. Questi era figlio dello zio con cui Maometto, orfano di padre e poi anche di madre, era cresciuto. Aveva inoltre sposato Fatima la figlia prediletta del Profeta, nata dal primo matrimonio con Khadija. Questa successione è riconosciuta dai sunniti, ossia da coloro che seguono la Sunna, la Tradizione, ma non dagli sciiti, coloro che seguono la Shia, il partito di Alì. Quest’ultimo sarebbe, per loro, il vero primo successore di Maometto. Il figlio di Alì, Hussein, fu poi ucciso dai soldati del governo del califfo sunnita a Karbala (680 d.C.). E qui è nata la divisione mai più sanata tra sunniti e sciiti. Tuttora persiste, e più acuta di prima. Per molti aspetti è stata rinfocolata dalla seconda guerra in Iraq e dall’occupazione statunitense, che ha rovesciato rapporti di forza consolidati addirittura nei secoli. In base al principio democratico della maggioranza, in sé astrattamente valido ma solo se contestualizzato e correlato a pesi e contrappesi, gli sciiti (oltre il 60% della popolazione irachena) sono andati al governo e la minoranza sunnita si è ritrovata all’opposizione, non più tutelata nei propri diritti non appena è finita la presenza americana sul territorio nel dicembre 2011. Ed è qui, in Iraq, che inizia il percorso che ha portato alla nascita del sedicente Stato islamico.

Il pioniere fu Abu Musab al-Zarqawi, che proprio dal 2003, all’indomani dell’invasione delle truppe della coalizione internazionale capeggiata dagli Usa, iniziò la propria campagna di terrore come leader del gruppo Tawhid Al Jihad, che l’anno dopo si affiliò ad Al Qaeda e prese il nome di Aqi. Al-Zarqawi scatenò in territorio iracheno la guerra settaria fra sunniti e sciiti, riattizzando antichi odii. Ucciso nel 2006, gli succese Abu Ayyub al-Masri, che nell’ottobre di quell’anno annunciò la creazione dello Stato islamico in Iraq (Isi). Nell’aprile 2010 Abu Bakr al-Baghdadi diventò leader di Isi. Apertosi il fronte siriano, investito dal 2012 da una guerra civile tuttora perdurante, cominciò la crescita dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis, questa la denominazione assunta dall’aprile del 2013). Conquistate Mosul, Tikrit e Al Qaim, il 29 giugno 2014 al-Baghdadi ha annunciato la creazione del Califfato che cancella i confini tra Iraq e Siria, poiché annette territori dell’uno e dell’altro Stato. D’ora in poi la denominazione è “Stato islamico” (Is). Dall’agosto scorso la strategia comunicativa compie un salto e inizia la macabra ritualità delle esecuzioni di ostaggi occidentali filmate e inviate ai media di tutto il mondo. L’Is firma anche stragi di massa, senza distinzione fra occidentali, cristiani autoctoni e musulmani, segnatamente sciiti, curdi e yazidi, comunità religiosa del Kurdistan iracheno, che pratica un culto sincretico di elementi cristiani e islamici. Il 12 marzo scorso l’Is ha dichiarato che il Califfato si è esteso all’Africa occidentale e che è stata siglata l’alleanza con il gruppo jihadista nigeriano di Boko Haram. Il resto è cronaca.

Dunque, c’è qualcosa delle guerre civili di religione di cui l’Europa cristiana ha fatto tragica esperienza lungo oltre un secolo, tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento? Sì, secondo John M. Owen IV, autore di un libro appena uscito per Princeton University Press: “Confronting Political Islam: Six Lessons From the West’s Past”. La sua idea è che nel Vicino e Medio Oriente sia in corso qualcosa di analogo ad una serie di guerre civili di religione, le stesse per modalità, finalità e conseguenze che divamparono e martoriarono mezza Europa qualche secolo fa. Guerre di religione e, insieme, guerre politiche. Il calvinismo, come il luteranesimo e gli altri cristianesimi riformati, e il loro acerrimo nemico, il cattolicesimo e la sua istituzionalizzazione nella Chiesa di Roma, erano all’epoca anche ideologie politiche, esplicitamente o meno, dal momento che intendevano uniformare la vita pubblica al credo e ai dogmi. Avvalendosi anche dell’aiuto militare. Tanto i cattolici quanto i calvinisti, ad esempio, avevano come obiettivo l’integrale conversione degli altri. Emblematico quanto dichiarava nel 1570 il successore di Calvino alla guida della repubblica teocratica di Ginevra, il teologo francese Théodore de Bèze: “Diremo che si deve permettere la libertà di coscienza? Per nulla al mondo! Si tratta di consentire la libertà di adorare Dio a ciascuno a proprio modo? È un regime diabolico!”. E ancor più eloquente un dialogo intercorso tra Caterina de’ Medici, regina consorte di Francia dal 1547 al 1559 come sposa di Enrico II di Valois, e il visconte di Turenne, ugonotto, ossia calvinista francese: “Il re non vuole che una religione nel suo Stato”, dichiarò la regina; “Noi anche, ma che sia la nostra!”, rispondeva il Turenne. Due integralismi, o intransigenze ed espansionismi teocratici, l’un contro l’altro armato, con uno più forte in alcune regioni e regni, l’altro più forte altrove. Il tutto culminò tra 1618 e 1648 nella cosiddetta “Guerra dei trent’anni” che sterminò almeno un quarto della popolazione della Germania.

La differenza fondamentale è che già all’epoca non pochi Stati europei, retti da monarchie più o meno assolutistiche, non si configuravano nemmeno lontanamente come teocrazie, anche là dove affermavano una religione di Stato. Sondaggi recenti, condotti fra 2012 e 2013, rivelano come in molti Stati dell’area, dalla Tunisia allo Yemen, passando per Egitto e Libia, la maggioranza della popolazione sia a favore della sharia, ossia la legge divina, quale legge dello Stato. La laicità dello Stato è un concetto tutto nostro, frutto finale di quelle guerre civili di religione che ci hanno dilaniato e stremato per oltre un secolo. Quanto tempo l’Europa occidentale ha dovuto aspettare affinché ci si convincesse che una stabilità politica permanente non aveva bisogno di uniformità religiosa entro i confini nazional-statuali? Non bastò la pace di Augusta (1555), né l’Editto di Nantes (1598). Ci volle la pace di Vestfalia (1648), e non ovunque bastò. La conquista del pluralismo religioso, e non della semplice e pericolante tolleranza, è stata assai lunga e sanguinosa, lastricata di persecuzioni e massacri. Ha richiesto secoli, come la stabilizzazione della mappa geopolitica europea. Per non parlare del pluralismo politico, ancora messo brutalmente in discussione nel Novecento.

Secondo tradizione, nella dār al-Islām (in arabo: : دار الإسلام , letteralmente “Casa dell’Islam”) hanno diritto di vivere e operare solo i musulmani e, con diverse limitazioni (come ad esempio il divieto di proselitismo e di erigere nuove chiese o monasteri) gli appartenenti alle cosiddette religioni “del Libro” (Ahl al-Kitāb), mentre ne sono esclusi i politeisti e gli atei. Ovviamente, da quando il mondo islamico ha assunto un assetto nazionale analogo a quello dell’Occidente cristiano, le cose sono cambiate, ma il neonato Stato islamico si sta muovendo proprio con l’intenzione di cancellare la geografia politico-territoriale e i relativi confini statuali segnati dalle potenze europee già alla fine della prima guerra mondiale. Come ha spiegato bene Bernard Lewis, tra i maggiori storici dell’Islam e del Medio Oriente a livello mondiale, “quando noi occidentali, cresciuti in una tradizione occidentale, adoperiamo i termini ‘Islam’ e ‘islamico’, tendiamo naturalmente a commettere un errore: assumiamo cioè che la religione, per i musulmani, abbia lo stesso significato che ha avuto nel mondo occidentale, anche nel Medioevo; vale a dire che essa segni un settore o uno scomparto di vita riservato a certe faccende, distinto o per lo meno separabile da altri settori designati ad occuparsi di altro”. Le distinzioni tra Chiesa e Stato, fra spirituale e temporale, ecclesiastico e laico, religioso e secolare non avevano corso nell’Islam prima della sua occidentalizzazione più o meno forzata seguita alla colonizzazione europea o al crollo dell’Impero ottomano. Di qui il ruolo “rivoluzionario” che ebbero, per un verso, l’opera di Kemal Atatürk in Turchia e, per un altro verso, opposto e reattivo, l’Ayatollah Khomeini in Iran.

La Tunisia è oggi un’ulteriore rivoluzione da quando è stata approvata la Costituzione nel gennaio del 2014. L’Islam è religione di Stato ma viene garantita la libertà di coscienza. La convivenza dell’Islam con i principi liberal-democratici viene rimarcata anche nelle prime due disposizioni costituzionali: secondo l’art. 1, infatti, «la Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano; la sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e il suo regime la Repubblica», mentre l’art. 2 sancisce che «la Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo Stato di diritto». L’articolo 20 afferma l’eguaglianza di diritti e doveri dei due sessi, mentre l’articolo 45 impone che il governo non solo protegga i diritti delle donne, ma garantisca le pari opportunità anche all’interno dei consigli elettivi. Nella nuova Costituzione si sancisce pertanto che l’islam è la religione di Stato ma si esclude la sharia – la legge islamica – come base del diritto del Paese. Nell’articolo 6 viene garantita la libertà di fede e di coscienza e viene posto anche il divieto di accusare qualcuno di apostasia.

L’integralismo islamico ha cominciato a diffondersi con efficacia nel mondo arabo-musulmano grazie a tre eventi politici cruciali: la sconfitta dell’Egitto di Nasser, secolarista, da parte di Israele nella guerra dei sei giorni (1967), appunto la rivoluzione khomeinista in Iran (1979) e infine la prima guerra del Golfo (1990-91). Il vaso di Pandora è stato infine scoperchiato nel 2003, con la seconda guerra in Iraq e un più recente squarcio in quel vaso è stato provocato nel 2011 dall’intervento militare occidentale nella Libia di Gheddafi, con lo scopo di abbatterne il regime senza averne previamente preparata un’adeguata sostituzione. I residui veleni contenuti nel vaso si sono così espansi a dismisura e in questi mesi ne saggiamo le conseguenze letali, a cominciare dai flussi in massa di migranti sulle nostre coste.

L’analogia stabilita da John M. Owen IV non convince molto, ma la comparazione con la storia dell’Europa moderna aiuta comunque a vedere quanto anarchica e variabile sia la conflittualità interna al Medio Oriente. Nel 2011, durante le cosiddette “Primavere arabe”, l’Arabia Saudita guidata da sunniti ha inviato truppe in Bahrein per contribuire a fermare una ribellione sciita, al fine di contenere l’espansione indiretta di un Iran a guida sciita. Poco dopo l’Iran è intervenuto in Siria per sostenere il regime di Assad contro i ribelli sunniti, sostenuti dall’Isis, allo scopo di impedire una possibile futura alleanza con l’Arabia Saudita. Di quest’ultima è assai probabile la forte preoccupazione per un’espansione di un fenomeno emergente come lo Stato islamico, destabilizzante l’intera regione e, in prospettiva, la stabilità dello stesso regno saudita. D’altro canto, l’acquisizione dell’arma nucleare da parte dell’Iran sarebbe un’ulteriore fattore di destabilizzazione. Anzitutto all’interno dell’area mediorientale, ancor prima che nel più vasto ordine internazionale. Al momento, possiamo solo dire che l’integralismo islamico è tutt’altro che monolitico, e l’Is sta sconvolgendo assetti ed equilibri che, ora più ora meno precari, si sono costruiti negli ultimi cento anni. Questa radicale e brutale rimessa in discussione della mappa geopolitica mediorientale sta procurando allo Stato islamico sia consensi e adesioni sia dissensi e oppositori tra le stesse società e Stati della vasta regione. Anche sui metodi di lotta non vi è unanimità tra gli stessi gruppi integralisti sparsi nei vari Paesi, dal Maghreb fino al Pakistan. Ad oggi.

L’analisi di John M. Owen IV ci rafforza nell’impressione che un intervento armato di Stati Uniti e/o Paesi europei servirebbe a rendere unito ciò che al momento è diviso e conflittuale al proprio interno. Il primo interesse a fermare l’Is alberga nei desideri di molti popoli, confessioni e governi dello stesso Islam. Il che non vuol dire che questi siano laici e “moderati” nel senso occidentale. Ma la differenza c’è, evidentemente. È lì semmai che occorre agire, diplomaticamente, economicamente, socialmente. La stessa avanzata dell’Is potrebbe creare fra Maghreb e Vicino Oriente una situazione non dissimile da quella che devastò l’Europa durante la Guerra dei Trent’anni. Quanto possa durare e quali esiti produrre non è facilmente prevedibile. La comparazione con la storia europea suggerisce che si possa trattare di un processo alquanto lungo, secolare e senz’altro molto sanguinoso. Resta da capire se una parziale “laicizzazione”, ossia una relativa separazione tra religioso e politico, possa esserne l’esito per estenuazione. Una sorta di extrema ratio di fronte ad un’instabilità politica e sociale che ad un certo punto potrebbe diventare del tutto insostenibile. E prima del suicidio dell’intera comunità musulmana, una qualche dose di laicità potrebbe essere la soluzione. Oppure no. Le categorie del pensiero islamico sono assai diverse da quelle europee. La sfida è culturale. In ogni caso, epocale.

 

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