di Damiano Palano
«Il politico di maggiore successo», diceva Theodore Roosevelt, «è quello che dice ad alta voce ciò che la gente pensa più di frequente». Benché non sia forse solo questa dote a decretare il successo di un leader politico, abbiamo ormai imparato che la convinzione di Roosevelt diventa sempre più realistica nella «democrazia del pubblico», come la definì ormai quasi vent’anni fa Bernard Manin. Ed è in fondo proprio su questo aspetto che attira l’attenzione Nicola Tranfaglia nel suo recente Populismo.
di Damiano Palano

populismo_Layout-1«Il politico di maggiore successo», diceva Theodore Roosevelt, «è quello che dice ad alta voce ciò che la gente pensa più di frequente». Benché non sia forse solo questa dote a decretare il successo di un leader politico, abbiamo ormai imparato che la convinzione di Roosevelt diventa sempre più realistica nella «democrazia del pubblico», come la definì ormai quasi vent’anni fa Bernard Manin. Ed è in fondo proprio su questo aspetto che attira l’attenzione Nicola Tranfaglia nel suo recente Populismo. Un carattere originale nella storia d’Italia (Castelvecchi, pp. 125, euro 14.50). Pur prendendo in considerazione molte interpretazioni di un fenomeno controverso come il «populismo», Tranfaglia propone infatti una definizione molto semplice: «Il populismo, inteso come capacità di coinvolgere le masse degli umani, dicendo loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire e, non dovendo attuare un programma preciso o dettato da un’ideologia pregressa (un modo di governare che ha caratterizzato i secoli precedenti il Ventunesimo, ma fino ad oggi, non quest’ultimo), dispone – per così dire – della flessibilità necessaria per andare di volta in volta incontro alle esigenze e ai desideri del suo popolo» (p. 6). Naturalmente Tranfaglia non trascura altri aspetti – il riferimento al popolo come comunità omogenea, il rancore verso gli intellettuali, l’ossessione per il complotto, la presenza di un leader carismatico – ma non è casuale che si concentri, nella propria definizione minimale, sull’assenza di chiari riferimenti ideologico-programmatici. In effetti, per Tranfaglia il populismo è soprattutto un fenomeno che emerge prepotentemente nei momenti di passaggio storico, di crisi, di lacerazione, che abbattono le vecchie identità e offrono spazio a nuove proposte. «Il fenomeno populistico», scrive in questo senso, «ha un andamento carsico nella società contemporanea», e compare «di fronte alle crisi belliche come a quelle economiche e sociali, e appare come una reazione al senso di frammentazione di una comunità in precedenza apparsa come coesa e raccolta intorno a valori accettati della grandissima maggioranza delle persone» (p. 15). E non è allora sorprendente che le tentazioni populiste ricompaiano dopo la fine della Guerra fredda.

La ricostruzione di Tranfaglia – anche se non è priva di riferimenti al peronismo, così come ad altre esperienze – punta però lo sguardo soprattutto sul caso italiano e sul significato specifico che riveste il populismo nella vicenda repubblicana. Tranfaglia ricostruisce così alcune sequenze della ‘tentazione populista’, passando da Achille Lauro a Bettino Craxi, e giungendo a Silvio Berlusconi, senza dimenticare il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, la Lega Nord prima di Umberto Bossi e ora di Matteo Salvini, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. E naturalmente l’approdo di Tranfaglia non può che essere Matteo Renzi, in cui vengono ravvisati i tratti paradigmatici del leader populista: «Renzi fa parte della generazione postdemocristiana, ma del rigoroso senso dello Stato e delle istituzioni, che pure avevano gli uomini migliori di quel partito, ha ben poco. Quello che non gli difetta è invece la spregiudicatezza, il decisionismo, un certo disprezzo per le procedure e i meccanismi della partecipazione e della dialettica democratica […]. Il populismo di Renzi è, ancora una volta, un populismo che parla alla pancia del Paese, che solletica il disprezzo per gli intellettuali e i ‘professori’, che fa appello diretto al popolo. Gli italiani – dice il premier – sono con lui, contro i ‘gufi’ (da notare l’uso di un termine adolescenziale per irridere gli avversari) che vogliono fermare il cambiamento. C’è, insomma, nel comportamento e nel pensiero del ‘giovane’ Renzi qualcosa di molto vecchio. Che ci riporta agli anni Ottanta e al craxismo, a Berlusconi e alla ‘modernità’ senza sviluppo» (pp. 83-84). Anche se forse agli ammiratori dell’attuale Presidente del Consiglio un simile giudizio potrà apparire quantomeno ingeneroso, è bene tenere presente che Tranfaglia ritiene che tutti i partiti italiani siano oggi «infettati dal verme del populismo, sia per il carisma che caratterizza di solito il capo prescelto, sia per i poteri dispotici di cui dispone il capo verso i candidati eletti» (p. 94). E questa consapevolezza spinge Tranfaglia a ipotizzare che il populismo, «carattere originale della nostra storia», sia diventato «il traguardo della politica nel Ventesimo secolo grazie alla fine delle ideologie storiche che avevano contrassegnato, nel bene e nel male, la storia precedente della Penisola» (p. 94). Ed è anche per l’assenza di qualsiasi alternativa reale alla ‘tentazione populista’ che la previsione di Tranfaglia è piuttosto fosca: «Negli anni a venire, una situazione nella quale i partiti rappresentati in Parlamento (ma anche gli altri che aspirano a entrarvi alle prossime elezioni) sono caratterizzati da un forte degrado e da sprazzi di neopopulismo non consente un grande ottimismo. Rischiamo, insomma di trovarci ancora una volta o di fronte all’uomo forte, che è intervenuto più volte nella nostra storia (Crispi, Mussolini o Berlusconi, per fare qualche nome) o di perpetuare il disagio e l’incertezza che ci hanno accompagnato nel Ventunesimo secolo» (p. 112).

L’interpretazione di Tranfaglia si inserisce in una discussione che sta diventando sempre più fitta. Che la formula «populismo» sia quantomeno problematica è fin troppo scontato, e, a ben guardare, i fenomeni che si intendono indicare con questo nome sono talvolta tanto distanti fra loro da rendere davvero molto problematica la loro inclusione in un’unica categoria. Anche per questo, ciò che Tranfaglia considera come specifico del populismo – la «capacità di coinvolgere le masse degli umani, dicendo loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire e, non dovendo attuare un programma preciso o dettato da un’ideologia pregressa» – sembra in fondo definire, più che un fenomeno davvero unitario, uno stile retorico, di cui forse nessuna forza politica può davvero fare a meno. Perché, anche nella retorica delle forze più ideologiche, non è difficile ritrovare qualche traccia – più o meno forte – di populismo. E basti pensare, da questo punto di vista, al Pci di Togliatti, alle polemiche contro i «forchettoni» e all’enfasi sulle masse «popolari» (ben più che sulla classe operaia e sui lavoratori salariati).

Ma c’è un punto davvero importante su cui Tranfaglia si concentra, ossia il fatto che il populismo viene a occupare lo spazio lasciato libero dalle precedenti identità politiche, in corrispondenza di fasi di crisi. In effetti, è per molti versi probabile che oggi l’Europa stia attraversando – non solo, ma anche per effetto della crisi economica – una fase di brusca ridefinizione delle identità politiche, che per esempio sfida in profondità le classiche demarcazioni tra destra e sinistra. Le varie formazioni che possono essere fatte rientrare nei confini labili del «populismo» – da Renzi al Fronte Nazionale, dalla Lega Nord a Podemos – hanno in comune forse proprio il fatto di tentare di definire nuove linee di demarcazione e di costruire nuove identità. Naturalmente è molto difficile dire oggi se queste proposte avranno successo, e quale opzione riuscirà ad avere la meglio. Ma c’è un elemento che vale la pena tenere presente. I ‘vecchi’ populismi, una volta arrivati al potere, hanno sempre cercato di dare stabilità al proprio regime utilizzando le risorse dello Stato per consolidare il consenso. Ma questo è invece uno strumento su cui, almeno in Europa, i ‘nuovi’ populismi possono contare solo in minima parte. E se per questo ogni proposta ‘populista’, una volta giunta al potere, tende a rivelarsi sempre più fragile di quanto possa apparire, non sembra neppure di poter intravedere margini di stabilizzazione di un quadro e di nuove identità. Tanto che il rischio potrebbe diventare quello di un’ulteriore polarizzazione delle proposte ‘populiste’, con effetti di cui è difficile immaginare l’entità, ma di cui sarebbe superficiale sottostimare la portata.

 

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