di Alessandro Campi

untitledC’è la Lega di lotta, quella che fomenta la protesta nelle piazze e cavalca la paura e il risentimento sociale, e c’è la Lega di governo, quella che si preoccupa di ben amministrare sul territorio e di affrontare le diverse questioni con piglio pragmatico. Questo almeno sostengono molti osservatori. Il problema è che talvolta non si capisce bene dove stia la differenza tra queste due anime o facce del Carroccio, ammesso che una differenza esista.

Prendiamo le polemiche scoppiate ieri in materia di immigrazione e sicurezza, causate dalla nuova ondata di sbarchi che si sta riversando sulle coste italiane. Matteo Salvini (leghista duro e puro, uomo di battaglia e propaganda) ha proposto, tanto per tenersi basso, la chiusura immediata dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati; e per non smentire la sua fama di intransigente con un certo gusto per la provocazione, ha sostenuto che abbattere con le ruspe i campi rom è un atto di “equità sociale”.

Roberto Maroni (governatore leghista della Lombardia, quindi uomo con responsabilità pubbliche) gli ha fatto eco annunciando una lettera ai Prefetti per diffidarli dal portare nella sua regione nuovi clandestini e minacciando di tagliare i trasferimenti ai sindaci lombardi che dovessero egualmente accoglierli sul loro territorio: due atti che semplicemente non rientrano nelle sue competenze istituzionali e nei suoi poteri amministrativi.

Quale delle due posizioni è di lotta e quale di governo? Non si tratta forse, in entrambi i casi, di demagogia allo stato puro, di un modo d’affrontare il tema dell’immigrazione unicamente finalizzato a esacerbare gli animi sperando di lucrare consensi e voti?

Ciò che più sorprende e diverte è che Roberto Maroni, nella sua lunga carriera politica, ha goduto una certa fama di uomo concreto e dialogante, al punto da risultare talvolta indigesto all’ala più militante del suo partito. Essendo stato più volte ministro, una volta del lavoro (2001-2006) e due volte degli interni (1994-1995, 2008-2011), secondo i suoi estimatori avrebbe anche fatto mostra in più occasioni di un senso delle istituzioni e dei doveri connessi al ruolo ricoperto che non è mai stato, per dirla in modo delicato, uno dei tratti qualificanti della classe dirigente padana.

Ma il nuovo corso salviniano, all’insegna del radicalismo sovranista e identitario, evidentemente non consente più distinguo e sfumature tra falchi e colombe, tra dirigenti di partito e amministratori, soprattutto su una materia – come quella dell’immigrazione – sulla quale la Lega del dopo-Bossi ha deciso di investire in modo prioritario e assoluto. Con l’idea peraltro di portare sulle sue posizioni, dichiarata variante italica di quelle del Front national della Marine Le Pen, l’intero centrodestra orfano del berlusconiano.

Il modo con cui il neo-governatore della Liguria, il forzista Giovanni Toti, ha ieri immediatamente condiviso le parole di Maroni – vagheggiando una sorta di alleanza del Nord contro il governo di Roma accusato di essere colpevolmente generoso con i profughi e i clandestini – da questo punto di vista è parso assai istruttivo. Sembra indicare che la riaggregazione politica del centrodestra potrebbe alla fine realizzarsi ma alle condizioni, sui temi e con il linguaggio del Carroccio. Il problema è che un rassemblement ideologicamente ispirato da Salvini, magari non guidato da lui, difficilmente potrà arrivare ad essere forza di governo anche se di un Paese sgangherato e in crisi come l’Italia.

Che sull’immigrazione – giunta a livelli in effetti preoccupanti – servano politiche più decise e restrittive, finalizzate a bloccare le partenze dalle coste africane e a combattere il traffico illecito di esseri umani gestito dalla criminalità, è un fatto. Così come è un fatto che tali politiche debbano essere adottate e messe a punto su scala europea, non essendo quello delle fughe in massa dall’Africa sui barconi un fenomeno i cui costi sociali e politici possano essere scaricati – come è stato sino ad oggi – solo sull’Italia. Il governo Renzi su questo terreno non è ancora riuscito a farsi sentire dagli altri partner. Appare inoltre prigioniero di una visione ideologica che nel migrante, nel profugo e nel clandestino sembra vedere gli alfieri di una nuova umanità meticcia e di un nuovo modello di cittadinanza globale, trascurando del tutto i conflitti potenziali – culturali e sociali – che un’accoglienza senza limiti all’interno di società altamente strutturate come quelle europee è destinata a produrre.

Ma un conto è criticare, con molte buone ragioni, le debolezze e le contraddizioni politico-culturali del governo Renzi e della sinistra in generale rispetto al fenomeno immigrazione. Tutt’altro è adottare, come ha fatto ieri Maroni ancora una volta, una posizione che rischia di confinare il centrodestra italiano nel campo di una protesta rabbiosa e incivile. Come non si può negare aiuto a chi si trova in difficoltà in mezzo al mare, così regioni ricche, rispetto al resto d’Italia, quali la Lombardia, il Veneto e la Liguria non possono rifiutarsi di dare accoglienza ai migranti, arrivando a mettersi contro il governo nazionale, e comportarsi a danno peraltro delle regioni del Sud Italia in maniera egoistica. Lo stesso ottuso e irresponsabile egoismo di cui hanno dato prova sino a questo momento gli Stati del nord Europa, che non vogliono saperne di condividere con l’Italia l’impegno di dare assistenza e ospitalità agli immigrati. Ma visto il biasimo politico e la riprovazione morale che questa loro posizione suscita perché imitarli o prenderli ad esempio?

* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” dell’8 giugno 2015.

 

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