di Stefano Berni
La domanda circa l’insegnabilità della politica risale quantomeno a Protagora, Socrate e Platone. Da un lato ci si chiedeva chi deve governare la città, dall’altro, se la politica non sia che una professione come tante. Per Platone si dovevano scegliere i migliori e poi prepararli a guidare lo Stato. Ci si affida a coloro che sanno governare, così come ci si affida alla scienza del medico o del pilota di una nave e non ci si consegna al primo che capita.
Protagora aveva compreso che occorre collaborare con l’altro. Senza tale sentimento politico non poteva nascere la polis. Senza il sentimento di giustizia non si può cooperare e scambiarsi equamente i beni, né convivere pacificamente e amministrare correttamente la città. Il sentimento di giustizia non è né una tecnica né un sapere; benché innato in ogni uomo, e patrimonio di tutti, va coltivato attraverso la formazione, perché, per prepararsi a governare una città, non basta un generico sentimento di giustizia (che appartiene naturalmente a tutti cittadini) ma occorre formare e preparare il cittadino stesso a svolgere un ruolo politico attivo. Quantunque il sentimento di simpatia e di amicizia tra gli uomini sia universale (come è universale il sentimento del bello, sebbene non tutti siano artisti), esso va coltivato con cura e con grande impegno da chi è chiamato di volta in volta a governare. Tale sentimento di giustizia non è una virtù (intesa come verità innata nei termini del Cristianesimo) che, una volta trovata, si realizza finalisticamente. Esso è invece piuttosto una passione e un’inclinazione. Si potrebbe definirla in termini più precisi come un istinto sociale, che si riconosce solo nel rapporto con gli altri. Per scoprirne la presenza non bisogna intraprendere una ricerca interiore volta al ripiegamento, ma occorre uno sforzo intellettuale che conduca verso l’esteriorizzazione, il dispiegamento, la costruzione del sé, il potenziamento, il rafforzamento e la realizzazione di ciò che blandamente era presente in nuce. Il sentimento di giustizia ispira il sentimento di uguaglianza fra gli uomini. E siccome, nel caso specifico, molti possiedono tale passione, dovrebbero coltivarla o essere messi in grado di coltivarla, altrimenti vi è il rischio non tanto della morte del soggetto, quanto della morte della comunità e dell’uomo come specie animale. La politica svolge una funzione immanente entro la realizzazione di una comunità che miri al benessere di tutti.
Se tutti sono spinti ad agire dalla passione politica, tutti possono potenzialmente imparare l’arte della politica. Diversamente dalla tecnica, che si può apprendere, e dalla fede, che mira alla verità assoluta, l’arte politica si rivolge al rapporto di relazione tra sé e l’altro: non mira a una sapienza esoterica o spirituale, ma ad un sapere condiviso: la democrazia. La democrazia implica infatti l’idea di educazione per tutti e di formazione delle classi dirigenti. Certo, anche in questo caso ci potrebbero essere degli individui che agiscono politicamente per interessi privati, che antepongono le proprie virtù personali al bene comune; tuttavia ciò accade proprio perché essi non agiscono in base ad una passione che ha a che fare direttamente con una forma d’arte – l’arte della politica – ma mirano ad altro.
Come accade per il percorso formativo di ogni studioso, così, anche per la preparazione del politico, non è sufficiente apprendere le tecniche, né basta possedere una naturale inclinazione; occorre formarsi a lungo per riuscire a imparare e a rispondere alle varie temperie. Occorre scegliere i migliori per quel settore specifico come si preparano i più bravi tra i medici e gli scienziati. Essi non sono solo coloro che hanno particolari attitudini in potenza, ma che sono riusciti a realizzarle e metterle in atto. Non si devono scegliere i governanti tra un’élite legata al censo o alla classe sociale specifica ritenendoli superiori a priori e quindi già pronti per l’incarico politico. Si dovrebbero invece preparare i politici, e solo a posteriori poterli scegliere.
Anziché optare per questa strada indicata da Protagora – quella di una democrazia in cui i soggetti si riconoscono nell’isonomia, ossia nell’uguaglianza, non tanto decisa da una legge imposta, quanto da un riconoscimento reciproco tra amici, – l’Occidente ha scelto la via pastorale. Se nella concezione democratica si guarda all’altro come un pari, – un soggetto libero di esprimersi, di seguire la propria arte, di pensare la relatività e la molteplicità, di volere dire la verità contro le forme di potere, – nella visione pastorale i soggetti devono (nel doppio senso del termine, di obbligo e necessità) confessare la verità e obbedire. Da un lato essi obbediscono e dall’altro si aspettano che il Maestro di verità indichi loro la via. Manca completamente la capacità di discussione e di decisione in vista di una risoluzione pragmatica dei problemi.
Dopo i Greci, la politica perde rilevanza e ci si affida ad un Pastore. Ciò che diventa primario è la vita di ciascun individuo e la sua salvezza spirituale. Si cerca così una guida, un trascinatore, un leader carismatico, un maestro che conosca le virtù spirituali. Non si insegnano più le tecniche politiche ma le tecniche del sé. Non si cerca più la risoluzione razionale del problema ma si vuole affermare la verità. Si rinuncia alla vita politica per rivolgersi a se stessi. Si è di fronte quasi a un paradosso, il paradosso del buon pastore: salverò la vostra anima, sacrificandomi per voi, a patto che mi seguiate e mi obbediate. E una visione paternalistica, patriarcale, divina del leader, come eletto da Dio, capace di risolvere d’emblée le problematiche dello Stato, il quale accentra, per ben governare, tutto il potere in sé come stato d’eccezione permanente. Siamo così di fatto in una teologia politica come struttura di governo che non è scomparsa neanche con l’avvento delle rivoluzioni avvenute nella modernità. Si è ancora in una forma secolarizzata di pastorale cristiana i cui tratti totalitari e confessionali sono facilmente riconoscibili. La società occidentale è il risultato di una concezione teologica: ricerca di unità, universalità, confessionalità, gerarchia. Il nostro, purtroppo, è un mondo antipolitico, con l’aggravante che si presenta come democratico.
Ancora oggi coloro che si occupano di politica non sono stati debitamente formati e giungono alla politica solo per difendere i propri interessi. Che cosa accadrebbe se a medicina, ingegneria o matematica si iscrivessero coloro che mirano a vantaggi che niente hanno a che fare con la propria specifica attività?
Nonostante la realtà imponga una scelta diversa, non si vuole insegnare la politica, dato che essa è considerata una virtù secondaria anche se posseduta e comune a tutti, (qui risiede il democraticismo) come se tutti fossero già preparati a praticarla, e si ritiene (o si finge di ritenere) che proprio questa virtù rientri nella categoria di democrazia. Ma non è così. Viviamo in una (apparente) democrazia governata da individui che non sono stati preparati preliminarmente alla vita politica, ma si sentono già pronti, pur provenendo da una formazione molto diversa da quella politica, spesso appartenenti a ceti sociali privilegiati. È certamente una democrazia rozza, populista, in cui i politici sono scelti sulla base di virtù che niente hanno a che fare con le capacità politiche.
Ciò è accaduto per mascherare il fatto che a governare è sempre un gruppo ristretto di potere che si cela sotto sembianze democratiche. Se in teoria è possibile per tutti accedere alla vita politica, in realtà la selezione è imposta da corporazioni solitamente arricchite, con l’aggravante, rispetto alle vecchie élite ottocentesche, che la classe politica non è neanche più adeguatamente preparata. Il sapere, infatti, prima apparteneva di diritto alla classe aristocratica ed era un contrassegno tangibile di distinzione rispetto alle classi meno abbienti. Oggi tale distinzione non è più culturale, ma è imposta da un successo di tipo prevalentemente economico e mediatico. I politici diventano coloro i quali possono contare su una certa notorietà clientelare, virtuale e mediatica; per non parlare dei partiti e della loro crisi irreversibile i cui iscritti vengono selezionati in base, letteralmente, alla loro mediocrità. Oggi che ciò che manca, è una vera e propria scuola che prepari i cittadini a candidarsi alla guida dello Stato.
È evidente dunque che, in questo particolare frangente, dove lo Stato e i partiti rischiano la dissoluzione, sarebbe necessario fondare una scuola che prepari le nuove classi dirigenti, una scuola, o meglio un’università pubblica, che selezioni i cittadini in base al merito. Solo in questo modo e attraverso questo canale sarebbe possibile costruire un potere democratico e funzionale. D’altronde ciò accade per accedere all’altro potere: quello giudiziario. Per diventare magistrati, bisogna percorrere un curriculum universitario e specialistico. Perché quasi nessuno richiede allora, almeno in Italia, che i giudici popolari sostituiscano in ogni ordine e grado i giudici togati? O che essi siano eletti dal popolo? In fondo, si potrebbe sostenere democraticamente, che tutti hanno il senso innato della giustizia.
A mio avviso, di fronte alla complessità della società globalizzata, è illusorio credere che ogni cittadino sia preparato o desideri occuparsi di politica: occorre pertanto una formazione culturale che prepari, almeno per un ramo del parlamento, una élite veramente capace, frutto di una scelta democratica effettuata dai cittadini, tra coloro i quali sono stati preparati ad affrontare la politica e selezionati sulla base del merito e sull’abilità raggiunta nell’arte della politica.
Solo in questo modo potremo provare ad evitare il pressappochismo, il qualunquismo e il familismo italico che minaccia ormai da anni le basi solide delle nostre istituzioni, sorte in un periodo eccezionale e forse irripetibile della nostra storia.
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