di Alessandro Campi

sergio_bertelli_150915Se n’è andato lo scorso 15 settembre, in quel di Roma, Sergio Bertelli. Originario di Bologna, era il primogenito di cinque figli, aveva (quasi) 87 anni, essendo nato il 29 settembre 1928, ed è stato uno dei più grandi storici italiani dell’ultimo mezzo secolo: il degno allievo di Federico Chabod (il suo maestro all’università, insieme a Carlo Antoni) e di Delio Cantimori (che lo volle come primo segretario del nascente Istituto Gramsci). Era anche un gran camminatore, un conversatore amabilmente caustico e un carattere curioso e irrequieto.

Aveva avuto una carriera accademica brillante ma accidentata e relativamente tardiva. A partire dal 1966 aveva lavorato presso lo Harvard Center for Italian Renaissance Study a Villa I Tatti (la mitica residenza fiorentina dello storico dell’arte Bernard Berenson). Ordinario di Storia moderna nel 1970 a Perugia, dove ha anche coperto l’incarico di preside della Facoltà di Scienze Politiche, nel 1980 si era trasferito a Firenze, dove ha insegnato fino al 2002 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.

Come molti studiosi della sua generazione, aveva iniziato le sue ricerche presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato a Napoli da Benedetto Croce, dove aveva ottenuto una borsa di studio per il biennio 1953-1954 (per un breve periodo ne sarà anche il segretario). Da quell’esperienza nacque il suo primo libro importante, pubblicato nel 1960 e dedicato a Ludovico Antonio Muratori. Cui avrebbero fatto seguito gli studi consacrati a Pietro Giannone, l’altra figura di spicco del Settecento riformatore italiano.

Insieme a Gennaro Sasso, Bertelli è stato il più grande machiavellista italiano della generazione successiva a quella di Chabod. Ma non fu quest’ultimo, come potrebbe sembrare, a spingerlo a occuparsi sistematicamente dell’autore del Principe. Stando ai suoi racconti (forse esagerati, ma certamente autentici) la responsabilità fu di Carlo Muscetta, che verso la fine degli anni Cinquanta – dopo aver rotto col Pci, della cui ortodossia ideologica era stato a lungo uno degli inflessibili custodi – dirigeva da Feltrinelli la Biblioteca dei classici italiani. Ordinò, letteralmente, al giovane Bertelli di curare la raccolta completa degli scritti machiavelliani, compresi quelli diplomatici. Un compito da far tremare i polsi, ma realizzato con diligenza e tempestività: i volumi cominciarono ad apparire nelle librerie a partire dal 1960 in un elegante formato tascabile, con la copertina rigida blu e con un costo che li rendeva accessibili a tutti. Va detto, per onestà, che le sue curatele (specie quando passò ad occuparsi anche dell’epistolario del Fiorentino) suscitarono all’epoca polemiche e controversie tra i filologi, che lo accusarono di un eccesso di disinvoltura nella copiatura dei testi. Ma nessuno ha mai potuto negargli il merito d’una scoperta d’archivio sensazionale, che da sola gli vale un posto tra i benemeriti della machiavellistica novecentesca: la trascrizione del De rerum natura di Lucrezio per mano di Machiavelli scovata da Bertelli, nel 1960, all’interno di un codice conservato presso la Biblioteca Vaticana. Chi sul momento ne negò l’autenticità autografa, il grande erudito Roberto Ridolfi, alla fine dovette cavallerescamente arrendersi all’evidenza. Quel ritrovamento, che certificava la radice epicurea e materialistica del pensiero di Machiavelli, spinse Bertelli a interpretare quest’ultimo come l’iniziatore della grande tradizione del pensiero libertino europeo, che ebbe il suo culmine nel tardo Seicento: una linea critico-interpretativa oggi molto seguita negli Stati Uniti. Proprio alla tradizione del libertinismo avrebbe poi dedicato un cospicuo volume apparso nel 1980. Sempre a Machiavelli, Bertelli ha consacrato – insieme a Piero Innocenti – una imponente bibliografia generale delle opere realizzata quando ancora non c’erano computer e data-base, ma si lavorava a memoria e con le schede di carta battute a macchina.

Bertelli è stato comunista sin da giovane: suo padre Rino, già socialista, era stato uno dei primi aderenti al Partito comunista d’Italia fondato da Gramsci. Ancora ragazzo si era trovato coinvolto negli scontri di Porta S. Paolo del 10 settembre 1943, durante l’occupazione tedesca di Roma. Compagno di liceo di Sandro Curzi, Citto Maselli, Luciana Castellina e Lietta Tornabuoni, militante della Fgci e attivista (nel giugno 1952 era persino finito in galera insieme a Renzo De Felice per aver progettato una pubblica contestazione durante la visita a Roma del generale americano Matthew Ridgway e dei due “sovversivi” si era occupato De Gasperi durante un suo intervento alla Camera), Sergio aveva rotto col partito nel 1957, dopo i fatti d’Ungheria. Fu uno degli estensori materiali – insieme a Muscetta, Luciano Cafagna e Lucio Colletti – del “Manifesto dei 101” che segnò il distacco dal comunismo di molti tra i più promettenti intellettuali del tempo (soprattutto storici, se si pensa che in quella covata di dissidenti c’erano anche De Felice e Piero Melograni). Violando il giuramento fatto con gli amici, fu lui a consegnare di nascosto il testo del documento all’Ansa, scatenando l’immaginabile putiferio di accuse, insulti e reprimende. Lasciatosi per sempre alle spalle i panni dell’intellettuale organico, Bertelli avrebbe fatto i conti con quella tradizione attraverso un libro che è forse il suo capolavoro: Il gruppo, pubblicato da Rizzoli nel 1980. Era una ricerca, condotta su materiali d’archivio inediti, sulle origini e sul consolidamento, tra il 1936 e il 1948, del gruppo dirigente del Pci, descritto alla stregua di un nucleo settario e chiuso, reso saldo dall’ideologia, dalle persecuzioni fasciste, da una mentalità di tipo cospiratorio e da una fitta trama di complicità e di strette relazioni personali. C’erano molto Max Weber e Georg Simmel – dunque la grande sociologia del Novecento – in quel libro apparentemente di pura storiografia politica. Ha poi definitivamente saldato i conti con se stesso e col Pci curando per Mondadori, nel 2001, una sorta di “libro nero” del comunismo italiano che gli valse la solita accusa di “revisionismo” e il biasimo definitivo dei suoi vecchi compagni di strada.

Al pari di altri ex-comunisti che avevano scoperto strada facendo, non senza tormenti personali e intellettuali, le virtù della cultura democratico-liberale, Sergio Bertelli si era ad un certo punto avvicinato alla Forza Italia del primo Berlusconi (quello ancora credibile come rinnovatore dell’Italia). Senza chiedere nulla sul piano politico, tanto non gli avrebbero dato niente, aveva preso a collaborare assiduamente con i giornali e le riviste d’area: in particolare con il bimestrale “Ideazione” fondato da Mimmo Mennitti. Come tutti quelli che sono già passati da una delusione cocente, non ne fece una malattia quando capì che per Berlusconi la cultura era solo un orpello e che c’era ben poco di liberale in un partito dove comandava uno solo. Ma da studioso del libertinismo Bertelli ha sempre mantenuto una grande simpatia umana per il Cavaliere scavezzacollo e sciupafemmine, oggetto a suo parere di un’assurda persecuzione giudiziaria e di un’invidia collettiva, mascherata da indignazione morale, che la diceva lunga sul modo di essere degli italiani: sul loro conformismo e sulla loro inclinazione – tutta cattolica – all’ipocrisia.

Poco attento alle compartimentazioni disciplinari, che fatalmente uccidono il lavoro intellettuale, Bertelli era riuscito a mettere in combinazione virtuosa la ricerca storica d’archivio con i paradigmi generalizzanti delle scienze sociali. In questa prospettiva, si è molto occupato – in particolare nei suoi libri Le corti italiane del Rinascimento (1985) e Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna (1990) – delle cerimonie e dei rituali del potere sovrano: togli a quest’ultimo le sue liturgie e i suoi simbolismi – spesso modellati su quelli religiosi, pervertimenti secolari di antiche tradizioni sacrali – ed esso finirà per perdere ogni legittimità storica, sino a trasformarsi in puro dominio basato sulla forza. La modernità liberale in fondo è questo: un potere che per aver perso il suo fondamento mi(s)tico-trascendente non per questo ha smesso di essere meno coercitivo e brutale. Bertelli era molto attratto anche dall’iconografia del potere e dal rapporto tra quest’ultimo e la sfera pittorica. Nel volume Il Re, la Vergine, la Sposa, del 2002, si era ad esempio divertito a mostrare come l’autorità sovrana sia stata rappresentata, spesso sulla base di variazioni di immagini della tradizione cristologica, attraverso i diversi segmenti corporali del principe o monarca: il capo chino, il ginocchio scoperto, la mano alzata, il dito puntato, ecc. Questo genere di studi probabilmente risentiva dell’aria di famiglia: lo storico dell’arte Carlo Bertelli, formatosi alla scuola iconografica del Warburg Institute, è infatti suo fratello.

Per più di un decennio, a partire dalla metà degli anni Ottanta, Bertelli è stato l’indefesso promotore del Laboratorio di Storia: un’eletta e variegata comunità intellettuale (composta da studiosi delle più diverse discipline e dei più diversi orientamenti politici) che si riuniva annualmente presso il Castello di Gargonza per tenervi seminari su temi eccentrici a cavallo tra antropologia storica, scienza politica e storia delle mentalità, non trascurando accanto a quello scientifico l’aspetto ludico-conviviale (cene, passeggiate tra i boschi, visite di gruppo a monumenti e borghi). Quegli incontri, per fortuna, hanno lasciato come traccia dei cospicui volumi che sin dai loro titoli fanno capire sino a dove si spingesse la curiosità intellettuale di Bertelli: Gli occhi di Alessandro (sul rapporto tra potere sovrano e sfera corporale), Il gesto (sui riti e cerimoniali politico-religiosi dall’antichità ad oggi), Tracce dei vinti (sulla cultura, e nobiltà, della sconfitta, su cosa significhi stare politicamente dalla parte sbagliata o perdente), La chioma della Vittoria (su come si sono costruiti nella storia i simboli dell’identità italiana). Dopo Bertelli, il maniero di Gangonza fu scoperto da quelli del Pd in vena di autoanalisi politica e quel luogo perse così ogni magia.

Nei suoi studi Bertelli si è anche molto occupato di Italia e di italiani: del carattere nazionale e dei tratti storico-politici che definisco l’identità della Penisola. Su uno in particolare di questi tratti si era soffermato: la persistenza patologica del potere oligarchico. La storia politica italiana – dalle città-Stato medievali alla Prima Repubblica – è stata segnata, secondo Bertelli, dal dominio di caste la cui tendenza è sempre stata quella ad autoriprodursi e a utilizzare il potere per finalità private. Proprio questa persistenza era ciò che a suoi occhi rendeva fragile la nostra democrazia e molle il nostro tessuto civile. In un suo saggio del 1996 i politici italiani che vogliono comandare sempre, a dispetto della loro pochezza culturale e ristrettezza mentale, li aveva definiti gli Inossidabili.

Negli ultimi anni Bertelli si era ritirato nella sua casa-biblioteca di Sutri, nel viterbese. Un basso con giardino, magnificamente riadattato, dove riceveva i suoi interlocutori prima di portarli a pranzo in una delle ottime trattorie del paese. Parlava molto del passato, senza nostalgie, ma soprattutto dei suoi progetti futuri, come se avesse una vita intera davanti a sé. Stava lavorando, sino alla scorsa primavera, ad almeno due libri contemporaneamente. L’ultimo suo lavoro, che forse nemmeno è riuscito a vedere, è stata la raccolta dei Discorsi parlamentari di Claudio Napoleoni, realizzata per una collana storica del Senato della Repubblica (ma era un lavoro vecchio di anni, pubblicato colpevolmente in ritardo dal committente). Sulla sua scrivania avrà probabilmente lasciato degli inediti. Io stesso ne posseggo uno sul Machiavelli licenzioso come risalta dalla sua corrispondenza con i “compagnacci” che frequentava. Di sicuro da qualche parte nel suo archivio ci deve essere un cospicuo carteggio con Cantimori, che davvero si spera possa un giorno vedere la luce (diceva di volerlo affidare agli archivi della Normale di Pisa, l’avrà fatto?).

Sapendomi collezionista di cose machiavelliane, mi aveva promesso che m’avrebbe lasciato in proprietà una delle due edizioni ancora in suo possesso delle Opere complete machiavelliane che lui aveva curato, tra il 1968 e il 1972, per lo stampatore Valdonega: un piccolo monumento di carta per il quale sbava ogni bibliofilo. Lo dico agli eredi, nel caso si fosse dimenticato di aggiungermi nel testamento. A proposito, non so quanto la cosa sia rilevante o quanto possa danneggiare la sua memoria postuma, ma a Bertelli piacevano molto le donne, anche perché da donne è stato circondato per la vita: ha avuto due mogli, una compagna e tre figlie.

 

* Con il titolo L’ombra del Principe quest’articolo è apparso sul quotidiano “Il Foglio” (Roma) del 23 settembre 2015.

 

 

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