di Danilo Breschi
L’8 gennaio del 1934 Leone Ginzburg rifiutò di giurare fedeltà al fascismo. Decretato nell’agosto del 1931 ed entrato in vigore nell’ottobre di quell’anno, l’obbligo ai professori universitari di prestare giuramento di fedeltà non solo alla “patria”, come recitava un regolamento generale del 1924, ma anche al “regime fascista” fu respinto soltanto da tredici professori ordinari di università statali che, così facendo, persero cattedra, stipendio e pensione. Tredici su milletrecento. Ginzburg non è ancora professore di ruolo, ma libero docente di letteratura russa presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino. Ha soltanto venticinque anni.
Al fiero rifiuto seguirono per Ginzburg due anni di carcere. Un precoce combattente della Resistenza, che non imbraccerà mai le armi, risultando tuttavia uno fra i più integerrimi e tenaci avversari del regime. Collaborò alla fondazione della casa editrice Einaudi e cominciò a organizzare la dissidenza nel mondo intellettuale torinese già prima dell’arresto, riprendendo tale attività subito dopo la scarcerazione.
Norberto Bobbio, suo coetaneo e compagno di classe, ha ricordato come, studente di prima liceo al d’Azeglio di Torino, Ginzburg in “ciò che diceva portava l’impronta di una personalità ormai formata che non si lasciava guidare dall’opinione corrente”.
La sua vita, pur breve, è un vero romanzo. Lo conferma Antonio Scurati che su questa tanto avventurosa quanto reale biografia ha incentrato buona parte del suo nuovo libro, “Il tempo migliore della nostra vita” (Bompiani), ottenendo fra l’altro il Premio Viareggio 2015 per la narrativa. Nell’incipit di questo romanzo si legge: “Chissà se Ginzburg, scrivendo quella lettera di resistenza, avrà gioito? Rinunciando a una brillante carriera, infrangendo la giovane promessa, avrà gioito, Leone? […] Noi che abbiamo avuto la sorte di nascere in un cantuccio di mondo agiato e protetto, noi non lo sappiamo cosa si prova in quei momenti, probabilmente non lo sapremo mai”.
La biografia di Ginzburg è quella di un singolo, ma anche di un intero popolo, quello ebraico, travolto dalla storia del Novecento che soffiò da Est verso Ovest. Figura degna di grande ammirazione per il coraggio delle proprie scelte e il rigore morale con cui le difese fino al sacrificio estremo. Morirà infatti a soli trentacinque anni, in carcere, il 5 febbraio del 1944, a seguito delle torture subite dai tedeschi.
Nel breve saggio Ginzburg ora ristampato dall’editore Castelvecchi (“Garibaldi e Herzen”, Roma 2015) ci rivela da quali idee e quali personaggi della storia trasse esempio e stimolo all’azione. Pubblicato in “La Cultura” nel 1932, lo scritto sui rapporti tra Giuseppe Garibaldi e Aleksandr Herzen ci dice infatti quanto importante sia stato il Risorgimento nell’alimentare ideali di opposizione al fascismo che non fossero totalmente debitori di ideologie nate e maturate altrove. Dal punto di vista più strettamente storiografico, Ginzburg rinviene nella figura di Herzen la chiave di accesso al complesso e ambivalente rapporto tra Mazzini e Garibaldi. Un contrasto di metodo, quello fra i due; così lo ritenne il giovane studioso antifascista. Herzen avvertì sempre nel primo un’intransigenza ideologica (“un monaco medievale”, ebbe a definirlo), che nel secondo era mitigata dal “buon senso” e dalla duttilità proprio dell’uomo d’armi e d’azione.
Garibaldi, nell’attenta ricostruzione che Ginzburg compie grazie a lettere e documenti dell’epoca, fino allora sconosciuti, mostra sia un’acuta conoscenza di Mazzini, di cui afferma che “conosce l’Italia colta e ne signoreggia le coscienze” ma “gode d’avere insegnato ai suoi allievi a irritare il Piemonte”, sia la consapevolezza altrettanto profonda di come il popolo italiano cerchi anzitutto l’indipendenza dallo straniero non comprendendo a che pro scagliarsi “contro l’unico regno forte d’Italia”. Il riavvicinamento, sincero, fra i due avverrà solo a unificazione compiuta, e ad unirli sarà, una volta presa anche Roma, la comune critica alla carente, se non assente, politica sociale dei governi del regno. Su questo convergeva anche l’ultimo Herzen, artefice di quel riavvicinamento sancito nella sua dimora di Londra il 17 aprile 1864.
Scrive, in conclusione, lo stesso Ginzburg: “mancava ogni accenno a quella che già allora si chiamava ‘questione sociale’, a una libertà da cui scaturissero, prima dei diritti politici, la dignità e l’indipendenza per la classi umili, diseredate”. Nascevano così le premesse di quel mito del “Risorgimento tradito” che, elaborato lungo un percorso politico-culturale che va da Oriani a Missiroli a Gobetti, avrebbe attraversato fascismo e antifascismo, e che tanta influenza ha infine esercitato sulla cultura politica dell’Italia repubblicana, tra aspettative e frustrazioni, entusiasmi e risentimenti, depositandovi tracce profonde.
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