di Damiano Palano
«Che cosa intendiamo per politica? Il concetto è estremamente ampio e comprende ogni genere di attività direttiva autonoma. Si parla della politica valutaria delle banche, della politica di sconto della Reichsbank, della politica di un sindacato in uno sciopero, si può parlare della politica scolastica di un comune cittadino o rurale, della politica della presidenza di un’associazione per ciò che riguarda la sua direzione, e infine della politica di una donna intelligente che si sforza di guidare il proprio marito. Naturalmente non ci occuperemo di un concetto così ampio nelle nostre riflessioni di questa sera. Con il termine ‘politica’ intendiamo piuttosto riferirci soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno Stato» (M. Weber, La politica come professione, in Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 52).
Le parole con cui, ormai quasi un secolo fa, Max Weber si rivolgeva agli studenti dell’Università di Monaco nella sua celebre conferenza sulla Politica come professione, rimangono ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia comprendere cosa sia la politica nel mondo contemporaneo, e forse anche cosa sia la politica nella sua essenza. Ma le difficoltà che segnalava Weber nel 1919, soffermandosi incidentalmente sull’inflazione del termine «politica», oggi non sono certo superate, e rendono per questo forse ancora più complicato fornire una risposta soddisfacente (se non certo completa). È invece proprio a questo insidioso compito che è dedicato il volumetto Politica di David Runciman (Bollati Boringhieri, pp. 174, euro 11.00), politologo dell’Università di Cambridge, presso la quale dirige il Dipartimento di Politica e Studi Internazionali. E benché il lettore più esigente possa ravvisare più di qualche lacuna nel testo – nel quale, per esempio, non vengono neppure menzionati testi cruciali della discussione novecentesca sulla politica, come il celebre Der Begriff des Politischen di Carl Schmitt o The Human Condition di Hannah Arendt – il risultato del lavoro di Runciman è comunque interessante (e godibile), non solo per chi sia in cerca di una prima riposta alla domanda «cosa è la politica?».
L’approccio di Runciman potrebbe essere definito come una sorta di realismo ‘hobbesiano’ moderato. Per un verso, il politologo sottolinea il ruolo che le istituzioni hanno nel controllare la violenza, mentre, per l’altro, sottolinea come la politica non sia affatto riducibile alla semplice dimensione istituzionale. Per esempio scrive: «All’origine di ogni accordo politico di successo convivono due lati. C’è il lato della politica che è prodotta da istituzioni stabili: tutti i contenziosi e i contrasti vengono in qualche modo risolti prima che la guerra esploda. E c’è la politica che produce istituzioni stabili: tutte le questioni e gli accordi che conducono una guerra ad essere conclusa. La politica non può essere ridotta ad alcun particolare assetto istituzionale. La politica precede gli assetti istituzionali e nello stesso tempo viene prodotta da essi» (pp. 14-15). Anche se non cede al compiacimento che talvolta contrassegna lo sguardo cinico dei realisti, Runciman avverte inoltre che la «politica del bene» spesso non è altro che «la maschera che rende possibili le orribili azioni che essa dovrebbe prevenire» (p. 23). E non dimentica di affrontare il problema del modo in cui la politica – e anche il terribile strumento della violenza, costitutivamente connesso alla dimensione politica – può volgersi verso il ‘bene’. Proprio qui, peraltro, Runciman torna a evocare le parole della vecchia conferenza in cui Weber diffidava i giovani che volevano ‘salvarsi l’anima’ a non cercare nella politica la via per raggiungere questo obiettivo. Ma la risposta che lo studioso britannico fornisce è in questo caso differente, perché non è solo la decisione del politico a decretare quale sia la soluzione al dilemma tragico relativo all’uso della violenza (e a ciò che essa comporta). «Weber era innamorato pazzo dell’eroe politico tragico e solitario di un tempo, in un’epoca in cui la politica era spesso tragica e sembrava aver bisogno di eroi. Agli inizi del XXI secolo il peso del rischio è cambiato. Il disordine civile non è sempre dato dal numero di persone che si mettono in pericolo. Ci sono anche le minacce ai principi condivisi del comportamento politico che una politica stabile ha reso possibile. I politici non hanno responsabilità solo sui propri cittadini, ma anche sulle proprietà costituzionali, sulla legge internazionale e sull’opinione pubblica globale. Tutto ciò impone dei vincoli che essi ignorano, mettendo loro e noi in pericolo. I politici non possono fare semplicemente i conti con la propria coscienza. Ci vuole qualcuno o qualcos’altro a cui debbano rendere conto» (p. 54). Ma il rischio è che i cittadini – cui nelle democrazie i politici devono rendere conto – diventino sempre più apatici, distanti, indifferenti e in fondo disinteressati a ciò che fanno i loro leader. Ed è proprio questa l’insidia principale che Runciman individua nel futuro delle democrazie occidentali. In sostanza, il successo di Hobbes – ossia un mondo in cui le istituzioni sono riuscite a monopolizzare la violenza, consentendo così lo sviluppo economico e uno stabile progresso tecnologico – priva le società democratiche del XXI secolo della possibilità di prevedere, sulla scorta del passato, quali sono i rischi di fallimento. «Non ci sono precedenti storici a cui riferirsi: non abbiamo cioè esempi di società prospere, sicure e vincenti, abituate ai livelli di comodità e di vantaggi di cui godono le odierne democrazie occidentali, che abbiano subito un collasso. Il che non significa che questo non possa accadere» (p. 65).
Naturalmente il monito di Runciman potrebbe essere preso come un inutile allarmismo, ma in realtà il discorso è più sottile. Ciò su cui il politologo intende attirare l’attenzione è piuttosto il rischio che discende dalla convinzione che ci si possa liberare dallo Stato e dalla politica (così come dai suoi costi): una convinzione che non solo nutre l’immaginario ‘anti-casta’ di molti movimenti degli ultimi anni, ma che costituisce una sorta di pilastro ideologico di molti cantori delle potenzialità delle nuove tecnologie, così come dei sostenitori delle virtù della «tecnocrazia». Un effetto di simili atteggiamenti è stato però il deleterio restringimento della classe politica: «L’élite politica ha sfruttato la nostra disattenzione per rafforzarsi. Non vorremmo chiedere conto della loro temerarietà, ma non abbiamo strumenti per farlo: la loro maggiore conoscenza del funzionamento della politica ci lascia con un sentimento di impotenza. La gente pensa di potersi riprendere la politica quando vuole, spesso si trova a non sapere dove individuarla quando ne ha effettivamente bisogno. I professionisti sono in grado di aggirare queste dinamiche. Il solo modo per imparare a fare politica è praticarla continuamente, sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male» (p. 111). Ma un effetto ulteriore – di portata ben superiore – potrebbe essere proprio l’incapacità di prevedere i rischi reali della catastrofe che pesa sul nostro futuro. Naturalmente – e Runciman lo ricorda – le democrazie hanno oggi a disposizione risorse inimmaginabili nel passato e sono dotate inoltre di una formidabile capacità di adattamento. Ciò nondimeno, «le democrazie non sono padrone del loro destino» (p. 165), e le scelte dei singoli governi potrebbero fare ben poco dinanzi a sfide effettivamente globali. Inoltre, per affrontare le grandi sfide del XXI secolo (prima fra tutte quella del mutamento climatico), le democrazie potrebbero non avere a disposizione il tempo necessario per agire adeguatamente. Ma, soprattutto, le democrazie occidentali potrebbero cadere vittima di una sorta di «compiacimento democratico». Un compiacimento che è qualcosa di più insidioso che la semplice soddisfazione di aver raggiunto un obiettivo mai conseguito nel passato, perché coincide piuttosto con la convinzione che il processo di miglioramento sia destinato a proseguire in modo interminabile nel futuro, e che il passato e i suoi incubi non possano tornare. Come scrive Runciman: «La democrazia è sopravvissuta alla Grande depressione, è uscita dal fascismo, ha sopraffatto il comunismo. Ha reso libero praticamente tutti i suoi cittadini. La violenza è stata allontanata. Il benessere si è diffuso. Le democrazie non solo hanno sempre risposto alle minacce e alle ingiustizie, ma hanno sempre vinto le loro sfide. Potremmo quindi credere che questo processo si ripeterà per un tempo indefinito. Quando sarà necessario, sapremo prendere le nostre decisioni insieme» (p. 168).
Non è molto difficile ritrovare le tracce del «compiacimento» biasimato da Runciman in molte delle discussioni sullo stato odierno della democrazia e sugli allarmi – più o meno fondati che siano – intorno alla sua ‘crisi’ o al suo logoramento. Di recente, un osservatore attento come Michele Ainis, a proposito di un libro del linguista Raffaele Simone, ha scritto che probabilmente gli allarmi sulla «crisi della democrazia» non sono per nulla fondati: «Può darsi», ha scritto, «che stia per affacciarsi un modello iperdemocratico, una democrazia senza partiti, dove la decisione principale spetta al delegante (il cittadino) anziché al suo delegato (il parlamentare)» (M. Ainis, I paradossi della democrazia. E i suoi (prematuri) funerali, in «Corriere della Sera», 27 ottobre 2015, p. 39). Certo il discorso di Ainis può avere qualche fondamento, ma è davvero difficile non riconoscere nella previsione (o nell’auspicio) di una prossima «iperdemocrazia» l’ennesima variante di quell’ottimismo da cui Runciman mette in guardia. Non perché non ci siano motivi per essere ottimisti. Ma perché l’ottimismo che nasconde al nostro sguardo i rischi reali non risulta in fondo molto diverso da un atteggiamento suicida. Nel nostro futuro, scrive d’altronde Runciman nella conclusione, nulla è predeterminato e sicuramente ci saranno scelte difficili: «Ma non potremo affrontare queste sfide nascondendoci o incrociando le dita. Potremo farlo solo attraverso la politica» (p. 170).
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