di Alessandro Campi

untitledLa solidarietà morale, sotto forma di partecipazione collettiva al dolore in occasione di particolari tragedie, nasce spontanea e non costa nulla, ma si esaurisce in fretta e soprattutto non produce risultati pratici. Proprio i francesi dovrebbero saperlo: la sfilata dei grandi della terra per le vie di Parigi e i milioni di “Je suis Charlie” che inondarono la rete dopo il massacro del 7 gennaio 2015 forse hanno lenito all’epoca la loro anima ferita, ma non li hanno messi al riparo dalla minaccia del terrorismo.

Oggi che il copione si ripete, con il tricolore blu-bianco-rosso che campeggia sui monumenti di mezzo mondo e copre l’immagine del profilo degli utenti di facebook, ci si chiede se a queste manifestazioni di sentimentalismo – peraltro intermittente e spesso ipocrita, visto che altrettanta commozione universale non è stata dimostrata per le vittime dell’aereo recentemente abbattuto sul Siani o per quelle dei molti altri attentati, non meno sanguinosi, imputati al fondamentalismo islamista in giro per il mondo – non sia da preferire una forma di autentica solidarietà politica. Il che significa, al di là della commozione e delle parole di condanna nei confronti del terrorismo, operare scelte contro quest’ultimo finalmente basate sulla volontà a collaborare, sulla condivisione e chiarezza degli obiettivi e sulla messa in comune delle risorse e degli strumenti necessari a conseguirli. Oltre che sulla lealtà e sul rispetto degli impegni presi.

Ciò che ci si aspetta dal vertice di Antalya iniziato ieri (e dalle trattative in corso a Vienna sul futuro della Siria) è esattamente questo: un cambio di strategia, dal punto di vista politico e militare, nella lotta contro lo Stato islamico, sinora condotta in modo discontinuo, scoordinato e persino ambiguo. Una decisione che forse non potrà scaturire in modo definitivo e completo da questo summit, ma che da esso può comunque prendere un avvio effettivo. Avendo come base politico-diplomatica un accordo che coinvolga in prima battuta Stati Uniti, Europa e Russia e che si estenda subito dopo a tutti quegli Stati musulmani che dell’ideologia califfale, se non fermata in tempo, rischiano di cadere prima o poi vittime.

Il presidente Hollande, sull’onda dell’emozione e della rabbia, da parte sua ha già annunciato una rappresaglia “spietata” nei confronti degli attentatori e dei loro mandanti. Ma un’azione punitiva condotta dalla Francia in modo solitario e unilaterale, se da un lato sarebbe un modo per appagare l’orgoglio ferito di un’intera nazione e per dimostrare al mondo di essere ancora una grande potenza, dall’altro finirebbe per risolversi in un tragico errore politico. Lo stesso che la Francia ha già commesso allorché ha pensato di poter intervenire prima nella guerra civile libica e più di recente nel conflitto siriano senza coordinarsi con i propri alleati europei e inseguendo solo le proprie convenienze geopolitiche e le proprie ambizione di grandeur.

La storia di questi anni, se non si vuole credere alle tesi complottiste secondo le quali le potenze occidentali (a partire dagli Stati Uniti) avrebbero una loro perversa e segreta convenienza nell’alimentare l’avanzata militare dello Stato Islamico, dopo averlo addirittura creato e foraggiato con finalità destabilizzanti nell’area mediorientale, ci insegna che la forza crescente di quest’ultimo è stata dovuta in gran parte alla disunità e ai contrasti strategici esistenti tra coloro che avrebbero dovuto fronteggiarlo in modo congiunto, convinto e continuativo. E che se talvolta si sono dimostrati superficiali e improvvidi (è il caso degli americani, che hanno addestrato e armato sino ai denti gli integralisti sunniti che combattevano contro Bashar al-Assad), spesso hanno operato sul filo di una mortale doppiezza (come nel caso della Turchia, che ha aperto le proprie frontiere ai foreign fighters arruolati dall’Is affinché avessero mano libera contro i loro storici nemici curdi) o di una tragica cecità (come i sauditi, che hanno pensato di utilizzare le milizie dell’Is in funzione anti-sciita e anti-iraniana salvo trovarsele nemiche alle porte di casa).

Dietro l’Isis, come fattori che ne hanno favorito la nascita e l’espansione, ci sono, come è noto, la fallita ricostruzione dell’Iraq come entità statale unitaria (qui l’ottusa emarginazione della cospicua minoranza sunnita ha spinto quest’ultima, guidata dagli ex ufficiali di Saddam allo sbando, ad imbracciare il radicalismo jihadista), e il collasso istituzionale della Siria (dove solo l’ostinazione della Russia ha sinora impedito che si commettesse lo stesso errore fatto in Libia con Gheddafi: eliminare un dittatore laico spianando così la strada non alla democrazia mai gruppi armati legati all’integralismo islamista).

In queste due aree di crisi, gli interessi economici divergenti e il tatticismo miope dal punto di vista geopolitico degli Stati Uniti, della Russia, della Turchia, dell’Arabia Saudita e dell’Iran (con l’Europa assente come sempre in quanto soggetto politico unitario) hanno finito per alimentare il caos sul quale i fautori del Califfato hanno costruito le loro fortune. Quello che ora potrebbe accadere, dopo che questi ultimi hanno colpito indifferentemente da Istanbul a Parigi, dall’Egitto al Libano, dai russi ai tunisini, e dopo che hanno dimostrato di muoversi ormai in autonomia anche rispetto ai loro sostenitori più o meno occulti, è che i Paesi appena nominati si convincano finalmente di avere, anche se per ragioni diverse, un nemico comune: che è loro interesse reciproco attaccare e sconfiggere, invece di pensare ad utilizzarlo strumentalmente contro l’avversario di turno.

Pensiamo, per fare l’esempio più eclatante, all’Arabia Saudita e alle petromonarchie del Golfo, che ai fratelli sunniti dell’Is hanno sinora fatto arrivare fiumi di denaro e offerto copertura culturale: prima o poi dovranno rendersi conto che la prospettiva del Califfato – una sorta di impero politico-religioso che per definizione non può accettare i confini statuali e territoriali che attualmente dividono l’Umma islamica – rischia di essere letale per la loro stessa esistenza come entità politiche autonome, oltre a minarne la legittimità agli occhi dei loro sudditi.

Se l’Is è nemico dell’Occidente (i cui valori e credenze avversa nel nome di un Islam cupo, fanatico e oscurantista), esso al tempo stesso sta rendendo distruttivo oltre ogni limite il secolare contrasto tra le componenti religiose musulmane, nessuna delle quali – né quella sunnita né quella sciita – può pensare di uscire vincitrice o egemone dallo scontro in corso senza pagarne un prezzo altissimo. Semmai, seguendo l’esempio storico delle guerre civili di religione europee, ciò a cui si dovrebbe puntare – ma solo dopo aver neutralizzato lo Stato Islamico – è alla definizione tra di esse di una nuova forma di convivenza e di equilibrio. Che è la vera partita politico-culturale-diplomatica degli anni a venire sulla quale proprio l’Europa, per aver conosciuto i lutti e le violenze che nascono dalla strumentalizzazione politica della religione, potrebbe offrire un utile contributo pacificatore.

* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messagero” e “Il Mattino” del 16 novembre 2015

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