di Alessandro Campi

untitledIn Francia, patria della retorica politica, lo definiscono pomposamente “fronte repubblicano”. Se non fosse lo Stato laico per eccellenza, se ne parlerebbe come di una “santa alleanza”. Quanto alla possibilità di definirla una nuova “union sacrée”, come ai tempi eroici della Prima guerra mondiale, va ricordato che all’epoca i barbari portavano l’elmetto chiodato e parlavano tedesco, mentre oggi vengono dall’interno e parlano un francese popolare e colorito.

“Fronte repubblicano” è la formula di salvezza che viene utilizzata ormai da parecchi anni ogni qual volta si tratta di sbarrare il passo alla famiglia Le Pen. Essa prevede come clausola principale che gli elettori di sinistra si turino il naso e votino in massa per i conservatori, attraverso il meccanismo della desistenza o della convergenza. La reciproca, che i moderati votino per i progressisti, si realizza assai raramente o quasi mai. Se la cosa va bene alla sinistra, non sarà certo la destra a violare questo genere di accordo.

Il meccanismo funzionò splendidamente una prima volta nel 2002. Al secondo turno delle presidenziali i socialisti fecero votare in massa il neogollista Jacques Chirac contro il rivale Jean-Maria Le Pen, che al primo aveva ottenuto inaspettatamente più voti di Lionel Jospin. Ne era derivato, per l’inquilino dell’Eliseo, quasi un plebiscito: l’82 per cento dei voti.

Nel frattempo il vecchio campione dell’estrema destra nostalgica di Vichy e del collaborazionismo, che parlava delle camere a gas come di un incidente della storia, è stato giubilato dalla sua stessa figlia Marine e reso definitivamente obsoleto dalla comparsa sulla scena della terza generazione di famiglia (la nipote Marion). Ma il partito che aveva fondato nel 1972 a imitazione, sin dal simbolo, del Movimento sociale di Almirante, non ne ha minimamente risentito. Cambiando leadership, ha anzi cambiato profilo ideologico e base sociale. E grazie al crescente deficit di legittimità dell’Europa, alla cattiva gestione dei flussi immigratori, al terrorismo jihadista e soprattutto alla crisi economica globale, che ha drammaticamente impoverito i francesi, non ha fatto altro che crescere nei consensi anno dopo anno.

Da qui l’esigenza di trasformare il “fronte repubblicano” in una ricetta permanente, alla quale ricorrere in ogni possibile occasione. Una ricetta resa oltretutto di facile impiego da un sistema elettorale congegnato in origine per garantire il massimo della governabilità, ma ormai utilizzato per mettere gli intrusi fuori dal sistema politica gli intrusi con la scusa di dover salvare la democrazia da ogni potenziale minaccia.

Nel gennaio 2015, all’indomani della strage contro “Charlie Hebdo”, quando sembrava normale che l’intera Francia si unisse nel dolore, tra i leader politici francesi che si abbracciavano in piazza contro il terrorismo non si volle che ci fosse Marine Le Pen: prima che uno sgarbo personale, un errore politico di quelli che non si commettono in circostanze tragiche. Ma ciò era ancora nulla rispetto a quel che è accaduto in occasione delle ultime consultazioni amministrative. Dopo la clamorosa affermazione al primo turno – nientemeno che il primo partito di Francia! – bisognava impedire che il Fronte nazionale conquistasse la guida anche di una sola regione. Ne è derivata una drammatizzazione che ha portato il primo ministro Valls, sul finire della campagna elettorale, a evocare lo spettro di una guerra civile in caso di vittoria del partito della Le Pen. Il che è parso confermare l’adagio del francesissimo Pierre-Joseph Proudhon sulla Francia “nazione di commedianti” proprio per questa tendenza a teatralizzare, spesso irresponsabilmente, la lotta politica e a immaginare di essere sempre sul punto di dover rimettere in scena il copione della Grande Rivoluzione.

L’operazione di contenimento ad ogni modo è riuscita. L’aumento dei votanti fra il primo e il secondo turno, che in parte è un fatto fisiologico nella dinamica elettorale francese, ha conseguito il risultato atteso. La notizia politica del giorno non sono le regioni conquistate dai socialisti e dai post-gollisti, un dato che sembra interessare poco gli osservatori ma il fatto, salutato come una liberazione da tutti i media, che “le FN n’obtient aucune région”.

Il fronte repubblicano ha dunque vinto nuovamente. Ma resta da chiedersi quanto possa durare (e quanto sia giovevole in prospettiva per il sistema politico francese) l’esclusione sistematica dal potere e dal governo (compreso quello locale) di milioni di cittadini. Si è sbarrata la strada al Fronte nazionale (che comunque è il primo partito per voti e consensi) o gli si è offerto un buon argomento polemico in vista della prossima battaglia presidenziale? Dopo questo voto resta in ogni caso da prendere atto che in Francia, come del resto in altre democrazie europee (Italia inclusa), il bipolarismo è un fatto ormai archiviato. Il Fronte nazionale avrà pure pochi seggi all’Assemblea nazionale e non governa nulla, ma è ormai una presenza stabile e sempre più incombente nella politica francese. Quanto alle guerre civili, visto che qualcuno si diverte a giocare col fuoco, ricordiamo che non scoppiano quando vince qualcuno che non ci piace, ma quando qualcuno non riesce a vincere mai perché gli altri truccano il gioco.

* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 14 dicembre 2015.

 

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