di Danilo Breschi
Il volume qui recensito (“Dottrine e istituzioni in Occidente,” a cura di Luigi Blanco, il Mulino, Bologna 2011) è nato anzitutto come omaggio per i settant’anni di Pierangelo Schiera (nato a Como nel 1941) da parte di alcuni suoi allievi che si sono formati negli anni Settanta-Novanta durante il suo magistero a Trento, tra l’Istituto storico italo-germanico e la Facoltà di Sociologia. Ciascuno dei contributi esprime gli interessi di ricerca specifici dei loro autori, ma da queste scelte del tutto libere e indipendenti traspaiono perfettamente anche quelli che sono stati da sempre gli ambiti di studio prediletti dal festeggiato. Ad esempio, Pierangelo Schiera ha fatto della storia dello Stato il tema scientifico della sua vita e ha sempre adottato un metodo di comparazione che Christof Dipper definisce «implicita», perché, «di fronte alla pellicola che rappresenta l’Italia, egli ha indagato la genesi dello Stato soprattutto nell’area di lingua tedesca» (“Stato e Chiesa: passato, presente e futuro del modello di cooperazione tedesco”, pp. 87-108, cit. a p. 87). È perciò l’area germanica il contesto culturale e politico-istituzionale di riferimento di quasi tutti i saggi compresi nel volume curato da Luigi Blanco. Altra caratteristica saliente della pluridecennale ricerca di Schiera è il fatto che egli si sia costantemente mosso nell’ambito della lunga durata, dal medioevo all’età contemporanea, prendendo legittimamente atto che non si può prescindere dalla lunga durata nello studio delle forme della politica e delle strutture della convivenza civile. Ciò è ancor più vero se si cerca, come Schiera ha fatto nel solco del suo maestro Gianfranco Miglio, di individuare ed auscultare i ritmi e le “regolarità” della politica.
Nel titolo del volume sono racchiuse le tre parole-chiave che enucleano gli oggetti di studio e le metodologie di indagine adottate da Schiera nel corso della sua lunga attività scientifica: dottrine, istituzioni e Occidente. La storia delle dottrine politiche è stato l’ambito disciplinare nel quale egli ha sviluppato le proprie ricerche, dedicandosi spesso ai cosiddetti pensatori minori (come, ad esempio, i cameralisti), e lavorando davvero più sulle dottrine che sul pensiero politico, ovverosia su qualcosa di più facilmente comunicabile e trasmissibile nel tempo, qualcosa che egli ha reputato perciò più influente in quanto utilizzabile anche a fini didattici e divulgativi. Blanco ricorda, da studente che ne seguiva le lezioni presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, come Schiera fosse sempre impegnato nel sottolineare forza e valenza pratica delle ideologie. Al contempo, gli individui e i gruppi hanno sempre dato vita ad istituzioni, ossia a forme organizzative, storicamente mutevoli, per rendere stabili e ordinate le modalità della loro convivenza. Le istituzioni hanno sublimato e consolidato le mutevoli forme del rapporto tra comando ed obbedienza, considerato quale dato di base, strutturale, della politica. A questa dimensione verticale si è però sempre affiancata quella orizzontale e partecipativa, dal momento che senza istituzionalizzazione nessuna dimensione potestativa avrebbe mai potuto durare nel tempo. E dentro l’istituzionalizzazione non vi è solo e soltanto coazione e subordinazione, più o meno passiva, ma anche condivisione e interiorizzazione consapevole e volontaria di norme e comportamenti sociali ritenuti legittimi. L’Occidente, infine, cui ha sempre fatto riferimento Schiera non può essere inteso come un assunto identitario, uno spazio di civiltà preso a modello da esportazione, fisso e immodificabile nei propri attributi virtuosi. Piuttosto, il suo Occidente risente molto della lezione weberiana, ed è pertanto da identificare con un processo filosofico e tout court culturale di razionalizzazione e disincantamento (Entzauberung) della condizione umana e dei suoi spazi di vita.
Tra i molteplici contributi che arricchiscono questo volume celebrativo merita una menzione particolare quello di Gerhard Dilcher, il quale ripercorre con ampiezza e rigore gli snodi salienti del dibattito storiografico circa il ruolo svolto dalla città medievale quale più risalente forma di collettività politicamente organizzata nella storia del Vecchio Continente (“Sul ruolo della città medievale in una storia costituzionale europea”, pp. 15-34). In particolare, egli si sofferma sulle zone a nord e a sud delle Alpi e rileva quanto i principi giuridici elaborati e praticati in ambito cittadino abbiano costituito le «forme di base» del costituzionalismo e della statualità emerse lentamente nel continente europeo. L’affratellamento giurato determinò un progressivo rifiuto dell’arcaico e feudale meccanismo di conflitto della faida, predisponendo le regole e le istituzioni idonee ad una risoluzione giuridica e giudiziaria, dunque vieppiù incruenta, delle controversie che quotidianamente sorgevano tra i cittadini. Non dimentichiamo che la fratellanza giurata, stabilita negli statuti e nei vari patti sorti “dal basso” e sanciti in forma di documenti scritti, affermava che i congiurati erano liberi e dunque anche uguali. Ovviamente, l’uguaglianza cittadina significava soprattutto uguaglianza di fronte al tribunale cittadino, e non implicava uguali diritti politici né uguale accesso agli uffici e al potere. L’etica cristiana diffusa grazie alle prediche degli ordini monastici incentivava però misure di solidarietà sociale nei confronti dei membri più deboli della comunità urbana. Dilcher conferma insomma la tesi storiografica che la civiltà comunale sia stata un formidabile incunabolo della modernità costituzionale e statuale.
Sulla linea della ricognizione della situazione aggiornata della storiografia su alcuni temi di studio cari a Schiera si pongono anche i saggi di Michael Stolleis (“La polizia nella prima età moderna”, pp. 35-56), Wolfgang Schieder (“La chiesa cattolica in Germania dopo la secolarizzazione: una nuova identità gerarchica”, pp. 109-128), Anna Gianna Manca (“La monarchia costituzionale nell’Europa del lungo Ottocento: da forma a strumento di governo”, pp. 151-184) e dello stesso Luigi Blanco (“Lo Stato «moderno» nell’esperienza storica occidentale: appunti storiografici”, pp. 57-86). Quest’ultimo, oltre a firmare l’introduzione, offre al lettore l’aggiornamento di un lavoro che proprio Schiera, assieme all’amico e collega Ettore Rotelli, ebbe il grande merito scientifico di avviare nei primi anni Settanta, curando l’oramai mitica antologia dedicata a “Lo Stato moderno” (1971-1974). Fu, a quel tempo, un’importante, corposa opera di sprovincializzazione della storiografia italiana in materia di genesi e sviluppo della statualità europea, che consentì alla generazione successiva di storici italiani di proporre tipologie e classificazioni che non si limitassero a mutuare termini e forme dal diritto costituzionale ma proponessero lessico e schemi di propria originaria fattura, frutto di un metodo storico comparato.
Nello stilare un aggiornato bilancio storiografico, Blanco giunge ad alcune conclusioni importanti. Anzitutto, «le origini dello Stato vanno […] collocate nel periodo storico compreso tra tardo medioevo e prima età moderna, quando si parla di origini immediate, e nel medioevo maturo quando si fa riferimento alle precondizioni strutturali» (p. 64). L’età medievale non va però ridotta ad una anticipazione del moderno, semmai va intesa quale peculiare «età di sperimentazione, nel corso della quale si elaborano e prendono gradualmente forma le strutture istituzionali e le strumentazioni ideologiche e giuridiche del mondo moderno» (p. 65). Le vicende dello Stato moderno europeo vanno comunque incluse e comprese all’interno della tensione per secoli irrisolta tra la forza accentratrice attivata da un polo principesco, che tenta di porsi quale “centro” unico e indiscutibile di gravità e sovranità permanente, e la forza decentrante esercitata da un polo cetual-corporativo che rappresenta le tante “periferie” di un continente dalle profondissime radici feudali e gelosa di un territorio a lungo pensato quale matrice di tradizioni e privilegi.
Altri saggi mostrano quanto le scienze politiche e sociali debbano il loro sviluppo alla tradizione tedesca di studi sull’amministrazione dello Stato che nella seconda metà dell’Ottocento ebbe il proprio apogeo. Raffaella Gherardi (“L’Italia del «risorgimento finanziario» tra scienza, dottrine e costituzione”, pp. 129-150) mostra come quel che Marco Minghetti ribattezzò “risorgimento finanziario” molto si avvalse di una scienza delle finanze che ebbe cultori e divulgatori di livello internazionale, come il siciliano Giuseppe Ricca-Salerno, il quale, fra l’altro, aveva seguito a Berlino le lezioni di Adolph Wagner e di Ernst Engel. L’intera “scuola lombardo-veneta” fu vicina agli insegnamenti della Scuola storica dell’economia che dalla Germania influenzò le scienze dell’amministrazione di molti Stati europei, ed in particolare di quelli di più recente costituzione, come l’Italia, appunto.
Verso la stessa regione d’Europa volse lo sguardo anche uno dei padri della sociologia moderna, il francese Émile Durkheim, il quale nel 1902 riconobbe il proprio debito teorico nei confronti delle scienze sociali tedesche ammettendo esplicitamente: «personalmente devo molto ai tedeschi» (p. 185). Il saggio di Maurizio Ricciardi (“La forza della società: disciplina, morale e governo in Émile Durkheim”, pp. 185-209) dimostra che l’influenza germanica sulla sociologia durkheimiana fu rilevante proprio in merito all’idea di assegnare alla società una normatività autonoma rispetto all’azione del legislatore e delle istituzioni statuali. Fu piuttosto in termini dialettici, di confronto e distacco dal magistero di studiosi come Rudolf von Jhering, che il sociologo francese maturò la convinzione che lo Stato fosse incapace di agire in profondità sui meccanismi che determinano l’azione. In tal modo, Ricciardi evoca un altro originale e significativo ambito di ricerca della più matura attività scientifica di Schiera, quello del «disciplinamento sociale» e della «melancolia» quale tratto specifico dell’uomo occidentale.
Dalla comparazione con il contesto tedesco, nasce anche l’interessante riflessione di Monica Cioli sul rapporto tra futurismo e fascismo e il ruolo giocato nell’ideologia del regime mussoliniano dall’utopia tecnocratica (pp. 211-233). Cioli mette in luce analogie e differenze con la pressoché coeva elaborazione filosofico-politica di Ernst Jünger, esponente di spicco di quell’eterogenea area politico-culturale di lingua tedesca denominata “rivoluzione conservatrice”. Dalla comparazione emerge chiaramente come l’ammirazione futurista per la tecnica sia essenzialmente una forma di estetizzazione della politica, piuttosto che una ricerca di concrete soluzioni tecnocratiche al problema del governo delle masse. Chiude il volume una riflessione di Gustavo Gozzi su “Diritti, costituzioni e ordine mondiale” (pp. 235-254), da cui si evince che l’Occidente non può disconoscere il portato positivo del proprio discorso politico-ideologico sui diritti umani, pur nell’ambivalenza in esso insita, tra pretesa civilizzatrice egemonica e universalismo pacificatore delle relazioni internazionali.
Lascia un commento