di Pierpaolo Arzilla (Bruxelles) e Federico Romanelli Montarsolo (Ginevra)
Minaccia imminente o patacca probabile? Finito il coprifuoco, ma con l’allerta 3 che resta in tutto il Paese, il Belgio s’interroga se ne valeva davvero la pena. I 4 giorni di emergenza maximale hanno scosso la capitale d’Europa, dubbiosa, impaurita e inquieta sulla reale portata del livello di difesa da una carneficina considerata incombente. Davvero Bruxelles ha evitato un altro 13 novembre, con un’operazione di polizia che però ha prodotto pochi arresti e nessun’arma o esplosivo ritrovati? Operazione di polizia, si diceva, e non proprio di intelligence, perché sono stati proprio i servizi belgi, secondo alcuni quotidiani locali, ad aver espresso le prime, e più autorevoli, perplessità. Di fatto, si tratta di due versioni molto divergenti. Quella ufficiale, è che domenica 22 novembre sarebbe stato stato sventato uno o più attentati a Bruxelles. Il ministro dell’Interno, Jan Jambon, ha ammesso nei giorni scorsi “che c’erano state indicazioni precise su un attacco”. Fonti dei servizi segreti, interpellati da alcuni organi d’informazione, sostengono invece che “è falso dire che il 22 novembre sia stato evitato un attentato”. Magari può esserci stato qualcosa che ha innervosito i presunti terroristi, e che ha spinto loro a commettere degli errori, come spostamenti visibili o qualche telefonata di troppo, evidentemente intercettata.
Ma niente di più, rilevano gli 007 belgi. E il fatto, come si accennava, che non siano mai state ritrovate né armi o esplosivi nei quattro giorni di intense operazioni di perquisizioni e arresti, sembra confortare la loro versione. Affermare che sia stato sventato un attacco terroristico, aggiungono, può inoltre essere rischioso per la vita degli insider o di qualsivoglia fonte interna alle presunte cellule jihadiste, e quindi per l’intero, meticoloso lavoro dei servizi stessi, che si dicono totalmente insoddisfatti di come il governo ha gestito la comunicazione del dopo coprifuoco. In sostanza, non c’era ragione di allarmare in maniera così improvvisa ed eccessiva la popolazione, e anche la stessa chiusura delle scuole è sembrata un provvedimento non necessario. Il risultato è stato tanti militari per strada, che in realtà si giustificherebbe, fanno trapelare ai media fonti interne agli 007, non per un addestramento o una capacità di azione superiore, ma per una semplice carenza delle forze di polizia. Insomma, la sensazione è che a una settimana dai fatti di Parigi, il governo belga, magari insospettito davanti una minaccia non meglio precisata abbia comunque voluto tutelarsi al massimo, e mettersi al riparo da eventuali accuse di negligenza e scarsa efficienza delle proprie reti d’informazione. L’impressione, però, è che ancora una volta il Belgio assurga alle cronache come un Paese disorganizzato, istituzionalmente inaffidabile, ora che gli attentati del 13 novembre hanno tolto il velo anche su Bruxelles e i suoi dintorni, con Molenbeek universalmente percepita dall’opinione pubblica come il ricettacolo mondiale della jihad globale, tana inaccessibile per esaltati pronti al martirio. E anche la sesta riforma dello Stato, ammettono molti analisti, non aiuta a definire chiaramente le competenze in maniera di sicurezza di un Paese che è stato capace di restare 541 giorni senza un governo federale con i pieni poteri e che, come tale, probabilmente, fa notare Dave Sinardet, docente di scienze politiche all’università di Bruxelles, non può avere avuto e non ha ancora la capacità di avviare un programma credibile di investimenti sulla sicurezza.
Il Belgio, sostiene l’Economist, “è frammentato politicamente e vulnerabile al terrorismo, ma lo è anche il resto d’Europa”. Dunque, è inutile continuare a sparare su un’unica croce rossa, scrive il settimanale britannico, che invita soprattutto la stampa francese – che nei giorni scorsi ha avviato una campagna molto aggressiva sulle responsabilità dei politici e dei servizi di sicurezza belgi nell’amministrazione di alcune zone problematiche della città, una su tutte l’ormai famigerata commune di Molenbeek – a fermare il “Belgium-bashing”, perché la maggior parte dei Paesi Ue “è sulla stessa barca”.
Le politiche europee della difesa e della sicurezza “vanno oggi riviste ed elaborate superando il Trattato di Lisbona, analizzando le strette relazioni esistenti tra la dimensione interna, cioè Schengen, ed esterna, Frontex”, si legge in un’analisi del Global Studies Institute dell’Università di Ginevra. Per dotare l’Europa di una difesa e una sicurezza più forti, “occorre comprendere anzitutto l’evoluzione delle sue frontiere, sempre più ‘liquide’. Se le frontiere esterne arrivano oggi in Turchia (rappresentando, nei fatti, il superamento di Schengen), quelle interne, come dimostrano gli attentati di Parigi, sono mobili per definizione. L’ISIS e le sue minacce sono strettamente legate e non separate dalle ‘nostre’ occidentali. Le sue frontiere – che sono le nostre – sono oggi estremamente volatili e difficilmente identificabili”. Mentre il mondo occidentale “pensa di colpire in Siria il Califfato, questo ha già spostato alla Libia la sua frontiera principale, ovvero il Mediterraneo. Per dare una risposta europea ai problemi della sicurezza occorre dunque comprendere a fondo l’evoluzione del concetto di frontiera e conoscerne le complesse implicazioni: in una sistema-mondo estremamente frammentato e difficilmente governabile sembra sfuggirci l’origine dei fenomeni e l’analisi delle problematiche, i cui rischi vanno evidenziati”.
Il premier belga, Charles Michel, invoca una CIA europea, confortato probabilmente da alcune analisi, come quella del Ceps, Centre for european policy studies, che riconosce i limiti delle attuali politiche antiterrorismo europee. Avere più dati e informazioni, senza le risorse umane necessarie, una più efficace cooperazione transfrontaliera e una maggiore fiducia tra le autorità Ue, scrive il CEPS non è la risposta migliore, considerando che la sorveglianza su larga scala e le tecniche di giustizia preventiva sono incompatibili con quanto affermato dalla Corte di giustizia europea. Occorre allora, afferma uno dei più autorevoli think tank bruxellesi, rafforzare sia la cooperazione tra forze di polizia e giustizia penale, che il coordinamento di agenzie come Europol ed Eurojust+, favorire un modello di cooperazione delle giustizie penali basata sul miglioramento delle investigazioni congiunte transfrontaliere e dell’uso delle informazioni.
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