di Alessandro Rico
Nel saggio Multiculturalismo. Una piccola introduzione (LUISS University Press, € 10), Domenico Melidoro, ricercatore presso il Center for Ethics and Global Politics della LUISS, fornisce le coordinate concettuali di questo tema di grande attualità, avanzando una proposta originale per guardare al fenomeno del multiculturalismo senza pregiudizi, ma anche senza retorica. Di agevole lettura e meritoria chiarezza espositiva, il saggio si articola in cinque capitoli: dapprima Melidoro chiarisce termini e concetti che sovente, nel dibattito pubblico, vengono utilizzati con disinvolta imprecisione; poi analizza i tre principali approcci al problema del multiculturalismo (la versione liberale fondata sul valore dell’autonomia, quella basata sulla lotta per il riconoscimento giuridico delle diversità culturali e il multiculturalismo dell’indifferenza); infine, redige una breve conclusione che aspira a sfatare i luoghi comuni degli avversari di ogni impresa multiculturale.
Questo saggio si fa apprezzare per lo sforzo di sottrarre la discussione sulla società multiculturale alla precettistica imbevuta di umanitarismo à la page, che costituisce il grande ostacolo a un confronto sereno, al di là degli steccati ideologici. Melidoro evidenzia lucidamente i limiti fondamentali delle interpretazioni multiculturalismo. Ai rawlsiani egli contesta il potenziale tirannico, implicito nella valutazione delle culture “altre” in base al criterio kantiano dell’autonomia morale. Melidoro denuncia cioè un certo “snobismo” liberale (del liberalismo alla Rawls, alla Kymlicka, o alla Dworkin), incapace di riconoscere piena cittadinanza a credenze, usi e costumi distanti dai paradigmi occidentali egualitaristi e secolaristi. D’altra parte, pure il multiculturalismo del riconoscimento e dell’inclusione, nelle versioni di Charles Taylor o Bhikhu Parekh, sembra fallire alla prova della compossibilità: ovvero, non tutte le culture possono coesistere beneficiando della stessa considerazione giuridica, per ragioni pratiche ma anche logiche (concezioni tra loro contraddittorie non possono godere tutte di uguale riconoscimento giuridico). Né si può adottare una concezione meramente preservazionista, che promuove cioè la salvaguardia dell’integrità di ogni cultura finanche indipendentemente dalla volontà dei suoi membri, giacché le convinzioni di questi ultimi potrebbero essere cambiate nel tempo. Per di più, neppure il multiculturalismo del riconoscimento sfugge alla “severità” dei requisiti stabiliti dal liberalismo dell’autonomia. Gli sono infatti necessarie alcune condizioni come la libertà di espressione e di informazione, oltre alla capacità di argomentare in modo accessibile anche a chi non condivide i presupposti culturali della tesi difesa; il che rende anche tale proposta particolarmente astratta e idealizzante. Il modello che all’autore pare più promettente, benché non privo di contraddizioni, è quello di vaga ascendenza anarco-libertaria avanzato da Chandran Kukathas: costui individua nella tolleranza il valore basilare del liberalismo ed elabora lo schema di un arcipelago di comunità reciprocamente indipendenti, rispetto alle quali uno stato minimo dovrebbe rimanere del tutto indifferente – una specie di “vivi e lascia vivere”, che peraltro ricorda la struttura di Utopia elaborata da Nozick nel suo storico saggio del 1974, Anarchy, State, and Utopia. Sebbene i requisiti minimi di questo paradigma ne accrescano l’attrattiva, Melidoro rileva tuttavia come la premessa concettuale di Kukathas sia irrealistica: il presupposto è infatti che le diverse comunità, proprio come in un arcipelago, non intrattengano alcun tipo di relazione; manca, insomma, l’attenzione alle acque che circondano l’insieme di isole. Ecco perché Melidoro arriva infine a suggerire un correttivo: di contro alle tendenze anarchiche del sistema di Kukathas, egli auspica che allo Stato sia recuperata la funzione positiva di coordinare le interazioni tra i differenti gruppi nella società, garantendo perlomeno il mutuo rispetto e la pace generale.
Multiculturalismo affronta una questione al tempo stesso tradizionale e attuale all’interno del liberalismo. Il problema del conflitto, particolarmente di tipo religioso, è infatti alle origini del liberalismo moderno. Nel Vecchio Continente si era inizialmente fatta largo la visione di Hobbes, fondata sul principio auctoritas, non veritas, facit legem, che conduceva al controllo del Leviatano sulle opinioni dei sudditi e alla primazia del potere temporale su quello spirituale. Poi venne Locke e, come sottolinea Kukathas, la tolleranza diventò l’architrave dello Stato liberale, il quale conobbe anche una singolare commistione di fede e politica negli Stati Uniti, dove le convinzioni religiose, che per un Rawls rappresenterebbero le «dottrine comprensive» cui attingere esclusivamente nella dimensione della «ragione non pubblica», svolsero invece una funzione essenziale ai fini della definizione dei valori costituzionali e dei principi dell’identità nazionale americana. Oggi che l’Occidente affronta la sfida lanciata dagli imponenti e inarrestabili flussi migratori, il problema del multiculturalismo non è più legato solamente al mosaico di sette cristiane disseminate dentro i confini europei e nordamericani, ma al confronto con religioni derivanti da altre radici culturali, e in modo particolare all’Islam. In questa prospettiva, il multiculturalismo dell’indifferenza, minimale e libero dall’ipoteca di universalismi o umanitarismi di maniera, potrebbe effettivamente fungere quale ragionevole compromesso tra l’entusiastica apertura di chi addirittura fa del multiculturalismo un pretesto per produrre veri e propri sincretismi e chi rimane diffidente verso l’inclusione di altre culture. È vero, d’altronde, che la presenza di numerosi gruppi etnici nei nostri Paesi è un dato di fatto, come è vero – evidenzia Melidoro nelle conclusioni – che identità nazionali o addirittura suggestive evocazioni legate al mito della “civiltà occidentale” trascurano di riconoscere che né le prime né la seconda incarnano una realtà monolitica. Si avverte però la sensazione che, nonostante l’ammissibilità del multiculturalismo dell’indifferenza, affrancato dalla marca anti-statalista, alcuni interrogativi rimangano insoluti. Aleggia, ad esempio, lo spettro dell’integrazione, tema anch’esso gravato dalla retorica buonista e sbrigativa di tanta politica, che nondimeno attende ancora soluzioni adeguate sotto forma di oculate politiche sociali; poiché se da un lato l’arcipelago di comunità autonome, coordinate dalle regole comuni implementate dallo Stato, può apparire un’immagine affascinante, dall’altro la quotidianità, specie delle classi medio-basse, è costellata dalle difficoltà di vivere in promiscuità, a contatto con etnie che ostentano stili di vita incompatibili con le esigenze del “coordinamento pacifico” di cui sopra. Vi sono poi le rimostranze di fasce di popolazione duramente colpite dalla crisi economica, che aggrava risentimenti sopiti, le quali lamentano la propria solitudine, a fronte della distrazione di misure assistenziali a beneficio degli immigrati. Non ci si può nascondere, inoltre, che proprio le società più multiculturali, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, sono costantemente attraversate da tensioni e indebolite da gravi fenomeni di emarginazione delle minoranze etniche, sovente esse stesse ostili, se non a una forma di assimilazione, persino all’accettazione delle norme essenziali del vivere comune. Si può forse attribuire la pervasività di tali problematiche ad arretratezza culturale, ostilità a sfondo razzistico, o chiusura preconcetta da parte dei nativi dei Paesi che “accolgono”? Con ciò torneremmo allora al liberalismo un po’ spocchiosamente pedagogico che il volumetto di Melidoro vuole superare, mentre non faremmo che dribblare il quesito sull’opportunità di fondare la coabitazione di diverse culture sull’esplicita approvazione di minimi ma irrinunciabili contenuti delle istituzioni liberaldemocratiche (un po’ meno del liberalism with spine alla Stephen Macedo, un po’ più del multiculturalismo dell’indifferenza).
C’è però anche un altro aspetto, forse più profondo e oscuro, che la teoria della coesistenza tra culture in qualche modo esorcizza ma non può esser sicura di sopprimere. Quelle tensioni che scuotono le società già multirazziali potrebbero non essere solo il risultato della depressione economica, ma la spia del “politico” che si va riaccendendo. In questo senso, la definizione di Carl Schmitt legata alla lotta tra amico e nemico rappresenta da sempre una intelligente provocazione rivolta al paradigma liberale. L’istituzione dello Stato nazionale ha contribuito con fatica a tenere sotto controllo il conflitto latente che costitutivamente si annida al fondo di ogni società, lasciandone affiorare, per l’appunto, la dimensione propriamente “politica”. Adesso quel sistema viene sollecitato di nuovo dalla mobilitazione di impressionanti ondate di genti straniere che chiamano le nostre istituzioni a reinventarsi, riproponendo il dilemma cui provarono a rispondere già Hobbes, Locke e ancora, il Rawls di Liberalismo politico o i libertari del sistema-arcipelago. Fino a che punto quella che Schmitt definisce la «neutralizzazione» del politico operata dal liberalismo è penetrata nelle nostre società? Siamo davvero pronti a stemperare di nuovo il politico per andare incontro alle necessità del multiculturalismo, o almeno tollerare l’alterità? Prendere in consegna tali complicati quesiti sarebbe stato però fuori luogo per un manuale pensato quasi didatticamente, come il saggio di Melidoro. Che nei suoi scopi, in fondo, riesce perfettamente.
Recensione a Domenico Melidoro, Multiculturalismo. Una piccola introduzione (LUISS University Press, € 10).
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