di Alessandro Campi
Le elezioni primarie, intese come strumento di selezione dal basso dei candidati di partito alle cariche pubbliche elettive, sono nate – si sempre sente ripetere – per favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica democratica e per sottrarre alle segreterie la scelta del personale politico.
Ma a giudicare dal risultato emblematico di Roma – meno di cinquantamila votanti per la corsa ad aspirante sindaco della città contro i centomila del 2013 – a mobilitarsi nei seggi sembrano ormai soltanto gli apparati (funzionari e dirigenti) e quel che un tempo si definiva la base militante (gli iscritti, peraltro da anni in drammatico calo). Quanto alla possibilità che siano i cittadini a scegliere chi debba rappresentarli, si è visto – a Roma ma anche a Napoli – che non è più tempo di outsider o di candidati che vengano dalla mitica società civile: il potere di nomina e indirizzo, talvolta esercitato attraverso un semplice endorsement, sembra saldamente tornato nelle mani dei vertici partitici. Il che, per inciso, non è detto che sia un male.
A Roma, numeri alla mano, è semplicemente mancato il voto d’opinione. E anche quello d’appartenenza o ideologico s’è visto poco. Si è provato a sollecitare i sedicenni, ma è stato un fallimento clamoroso, che lascia immaginare quanto i giovanissimi siano distanti dalla politica e dalle sue forme tradizionali. Insomma, se ne sono rimasti tranquillamente a casa i simpatizzanti ed elettori potenziali del Pd, quel popolo di sinistra non direttamente coinvolto nella vita del partito ma in passato sempre pronto a mobilitarsi quando la (buona) causa lo richiedeva.
Nel caso romano, come ha ben spiegato ieri su queste colonne Mario Ajello, ragioni per spiegare il calo drastico dei votanti d’area progressista ce ne sono naturalmente molte. Innanzitutto psicologiche: dalla fine traumatica dell’amministrazione Marino per mano amica alla scoperta delle infiltrazioni criminali nel governo cittadino e nello stesso partito, eventi che hanno causato delusione e frustrazione. Poi logistiche e organizzative: una volta c’erano ad esempio i sindacati e le altre organizzazioni fiancheggiatrici del partito (cooperative, associazioni culturali) che agivano come canale di mobilitazione, ma anche quell’epoca sembra finita.
Senza contare la strana e paradossale sensazione, diffusasi nelle ultime settimane, che di vincere a Roma hanno tutti un po’ paura, quasi che governarle la città eterna sia di questi tempi una disdetta più che una responsabilità alla quale ambire e un onore politico del quale vantarsi. Ma se i partiti non sentono la fame della vittoria e il desiderio della conquista, forse memori dei disastri che hanno combinato, a cosa dovrebbero appassionarsi gli elettori? Si può infine dire – per consolarsi con la teoria del bicchiere mezzo pieno – che la meteorologia non ha effettivamente aiutato e che cinquantamila votanti sono sempre meglio dei pochi maniaci del computer che fanno la fortuna degli oscuri candidati grillini nonché un segno di vitalità democratica storicamente sconosciuto al centrodestra.
Resta però il problema – ora che Roberto Giacchetti è il sicuro concorrente al Campidoglio per la sinistra d’ispirazione renziana – di dover convincere e motivare tutti coloro che hanno seguito quest’appuntamento interno al Pd, nella migliore delle ipotesi, con solenne indifferenza. Si dovrebbero offrire loro valide ragioni politiche e seri motivi d’interesse affinché si rechino alle urne il prossimo giugno. Quella che si apre ora potrebbe in effetti essere una fase più interessante e proficua di quella appena conclusasi: per i candidati ma soprattutto per la città. Si dovrebbe infatti capire quali siano i programmi e i propositi d’azione che si intende mettere in campo. Sin qui sono apparsi minimalisti, generici, banali, propagandistici e di nessun richiamo. Tra i partecipanti alle primarie del Pd, ad esempio, è stata soprattutto una gara ad esprimere le proprie buone intenzioni, senza andare molto oltre con gli impegni. Ma ora?
A nessuno sono ovviamente richiesti voli pindarici o promesse solenni. Anzi, per come Roma è ridotta servono umiltà, concretezza e senso della realtà. Ma qualcosa si vorrebbe sentire – di impegnativo e di esplicito – in materia ad esempio di privatizzazioni delle municipalizzate, di gestione dei rifiuti, di riorganizzazione del sistema dei trasporti, di riqualificazione urbana, di sicurezza, di programmi di sviluppo e investimento come quelli che potrebbero essere legati all’appuntamento olimpico, ecc. Più in generale, quando tutte le candidature saranno decise e ufficializzate (nella speranza che anche il centrodestra arrivi presto a risolvere le sue divisioni interne), sarebbe utile capire quale idea strategica e politica del governo cittadino hanno in testa i singoli concorrenti.
Per quanto Roma sia mal ridotta, tra corruzione endemica, incuria e pericolose commistioni affaristiche, a chi sarà chiamato a guidarla non si può chiedere che si dedichi a tempo pieno solo a rattoppare il manto stradale o a distribuire le esche contro i topi, anche se gestire degnamente la vita quotidiana della città sarebbe già un buon punto di partenza. Ma bisognerà pur averlo, per la città che è anche la Capitale d’Italia, un disegno, un programma, insomma qualcosa che somigli ad un progetto strategico e di lungo periodo, magari di qualche ambizione. Diversamente, se il problema, oggi e domani, è solo gestire le emergenze e assolvere l’ordinaria amministrazione, tanto varrebbe nominare un commissario perpetuo.
* Editoriale apparso su “Il Messaggero” dell’8 marzo 2016.
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