di Alessandro Campi

bertolaso_meloni_2FgPensare la politica politicamente (o almeno provarci) è la cosa migliore che si possa fare quando c’è da spiegare comportamenti e situazioni che altrimenti sembrerebbero ispirati dall’irrazionalità, dalla pura casualità o da un umore pazzo.

Prendiamo il caso di Roma e, in particolare, il processo di lento ma inesorabile disfacimento del centrodestra. Lo si può certo attribuire a un eccesso di personalismo e alla natura caratterialmente infida e litigiosa dei protagonisti di una vicenda che sembra presentare, comunque la si guardi, tratti oggettivamente surreali e grotteschi. Ma a considerare bene le cose c’è una ragione, appunto politica, che probabilmente spiega quel che è accaduto: vale a dire l’irrigidimento leghista dopo l’investitura di Guido Bertolaso ad opera di Berlusconi e il ripensamento davvero sorprendente di Giorgia Meloni, defilatasi a suo tempo in quanto prossima a diventare mamma e decisasi invece a correre per il Campidoglio anche per dimostrare che biologia e politica, maternità e passione civile, non si elidono.

L’impressione è che l’appuntamento amministrativo romano – dato anzitempo per perduto dal centrodestra, a meno di non affidarsi ad un candidato esterno alla coalizione quale poteva essere Alfio Marchini e che però nessuno al dunque ha voluto veramente – sia stato utilizzato come banco di prova in vista delle prossime elezioni politiche, quando i litiganti di oggi dovranno giocoforza rimettersi insieme (perché la legge elettorale lo impone), ma soprattutto dovranno accordarsi su come dividersi collegi e posti da deputati: davvero pochi se al ballottaggio finale andranno, come si pronostica, Pd e M5S, ma questo appunto spiega la paura di molti di vedere conclusa anzitempo la propria carriera.

Prendiamo Giorgia Meloni e i suoi fratelli italiani. Se la prima non dimostra di contare qualcosa almeno sulla piazza romana (che è la piazza storica della destra nazionale) con quali argomenti potrà poi trattare col Cavaliere quando bisognerà decidere su come spartirsi le candidature e gli scranni sicuri? Le verrebbero date le briciole. Ma lo stesso dicasi per Matteo Salvini, che proprio nella Capitale (piuttosto che a Milano) ha paradossalmente giocato la sua partita più importante e difficile: mettendosi di traverso a Bertolaso, dopo aver fatto finta di sostenerlo, ha mandato al Cavaliere un segnale di forza inequivoco, che lo predispone bene nelle future trattative. Roba da vecchi mestieranti, lamenta sconsolato Berlusconi, ma stiamo appunto parlando di politica politicante, non di manovre da statisti.

In tutto ciò c’entra anche la partita della successione alla guida del centrodestra. Che Berlusconi semplicemente non ce la faccia più ad esercitare il suo antico potere sovrano è chiaro a tutti meno (forse) al diretto interessato. Ma è anche chiaro che la Meloni e Salvini non possono, nei confronti del vecchio leone, andare oltre un’efficace interdizione, come appunto stanno facendo. Hanno il loro recinto ideologico e identitario (come loro stessi lo chiamano), ma oltre non possono e non sanno andare, laddove il problema politico del centrodestra sono invece i milioni di suoi vecchi elettori ripiegatisi verso l’astensionismo o peggio in fuga: i più arrabbiati verso il movimentismo grillino, la minoranza moderata verso il renzismo (magari per il tramite di Alfano e Verdini).

Il calcolo tutto interno di cui abbiamo parlato, che con Forza Italia ai minimi termini Berlusconi eviterebbe volentieri, offre dunque un senso razionale allo psicodramma di questi giorni. Ma è chiaro che non può che apparire miserevole e poco lungimirante dal punto di vista degli elettori. E dunque il rischio reale è che per contarsi singolarmente oggi si finisca per contare ancora meno tutti insieme nel prossimo futuro.

I romani simpatizzanti del centrodestra potrebbero trovarsi dinnanzi cinque candidati (Meloni, Bertolaso, Marchini, Storace, Raggi) che insistono tutti, con vari argomenti, su una stessa area elettorale. Questo frazionamento, lungi dal galvanizzare o dall’essere un segno di vitalismo, è chiaro che finirà per deprimere ancora di più i potenziali votanti: alto potrebbe dunque rivelarsi l’astensionismo, considerando anche i malumori pregressi dei cittadini.

A Roma, proprio alla luce di ciò che è accaduto nel recente passato, servivano (diciamo, con un filo di residua speranza, servirebbero) proposte politiche organiche, semplificate, chiare e politicamente unificanti, tra le quali poter scegliere la più adatta al rilancio della città dopo tanta incuria. I cittadini avevano e hanno bisogno di schiarirsi le idee dopo anni di politica fangosa e fumosa (da Alemanno a Marino). Tutto serviva insomma meno che lo spezzettamento delle candidature. Che è del centrodestra, ma anche – a quanto pare – del centrosinistra. E del quale l’unica a giovarsi, così continuando, sarà la candidata di Grillo: giovane, telegenica, dialogante e poco urlante, professionista in carriera, socialmente ben inserita, espressione insomma dello scaltro riposizionamento tattico e d’immagine dei grillini sul quale, in prospettiva delle politiche, gli avversari di questi ultimi dovrebbero cominciare a riflettere seriamente.

* Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 17 marzo 2016.

 

 

 

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