di Alessandro Campi
Quel che sta accadendo all’interno del centrodestra italiano, a partire ovviamente dallo psicodramma di Roma, è qualcosa che sfida le capacità di analisi di chiunque s’interessi professionalmente di politica.
I suoi leader hanno perso la brocca o semplicemente si sono ficcati in un cul de sac dal quale non sanno più come uscire? È una crisi grave ma localizzata o il segnale che quel mondo è definitivamente imploso? È una guerra di potere che preclude a futuri equilibri e a nuovi rapporti di forza all’interno del campo cosiddetto moderato o è la solita commedia da politicanti a caccia di visibilità e di un posto quale che sia? Più semplicemente: perché non si riesce a fare a Roma, con un po’ di buona volontà, quel che si è tranquillamente fatto a Milano? Si sta forse utilizzando il voto amministrativo nella Capitale per posizionarsi – candidature e seggi alla mano – in vista dell’alleanza che il centrodestra dovrà inevitabilmente formare quanto si voterà per le politiche?
Sarebbe facile ricondurre i contrasti e le divisioni di cui si legge quotidianamente sui giornali alla sempre più evidente senescenza politica del Cavaliere, un ottantenne cocciuto che si crede immortale e insostituibile solo perché nessuno ha il coraggio di dirgli la verità, e all’ambizione senza più freni ma politicamente legittima di Salvini e della Meloni, che semplicemente si sono stancati di aspettare un passaggio di consegne che non arriva mai e che ancora più semplicemente non vogliono fare la fine di tutti i delfini annunciati di Berlusconi: prima una pacca sulle spalle, poi una coltellata alla schiena.
All’interno di uno scenario nazionale che ha visto affacciarsi, negli ultimi anni, attori nuovi e pieni d’energia (il rottamatore Renzi a sinistra, le nuove leve del grillismo, a destra gli stessi Salvini e Meloni) come si può pensare, in effetti, che il centrodestra affidi le proprie fortune future al suo leader di venticinque anni fa? Ma la contesa generazionale e lo scontro per la successione, per quanto politicamente importanti, rappresentano gli aspetti più appariscenti ma anche più superficiali del braccio di ferro in corso.
I veri problemi, che più rischiano di incidere negativamente sul futuro di quest’area politica e sulla sua capacità di tornare ad essere minimamente competitiva, sono in realtà altri. Ad esempio la deriva estremistica, radicaleggiante, populistica che Salvini e la Meloni hanno ormai decisamente imboccato. Il vento della storia sembra soffiare in tutta Europa in direzione dell’estremismo anti-immigrati, dell’anti-europeismo, delle politiche securitarie e loro, guardando soprattutto ai successi oltralpe del Front national, hanno deciso di assecondarlo. A Roma, grazie all’alleanza sovranista e identitaria tra nazionalisti padani e ultra-patrioti d’ascendenza missina, si stanno evidentemente facendo le prove generali degli slogan e dei temi di battaglia da utilizzare per le prossime elezioni politiche.
Ma l’Italia non è né la Polonia né l’Ungheria, dove l’estrema destra è riuscita ad andare al potere risvegliando paure antiche e nuove, oppure giocando su risentimenti e fobie che gli anni della dittatura comunista avevano semplicemente occultato.
Una destra che urla e insulta, che pretende di qualificarsi come forza di governo immaginando che tutti gli italiani debbano girare armati per autodifesa, che conta solo sulla capacità dei suoi due giovani leader di bucare lo schermo quando li si invita nei talk show per fare la parte dei cattivi ad ogni costo e dei bastian contrari su tutto, che nemmeno lontanamente può contare sul radicamento sociale, sulla continuità storica e sulla forte tradizione ideologica che sostiene ad esempio il lepenismo in Francia – una destra così, si diceva, forse guadagnerà qualche punto percentuale tra le fasce sociali più arrabbiate, forse mobiliterà un po’ di virgulti tatuati da portare nelle piazze, ma resterà sempre una forza marginale e d’opposizione permanente.
Ne consegue – ed è quasi un paradosso – che con una destra così, in progressiva deriva estremistica, faccia cattiva e mascella serrata, l’acciaccato e sempre più declinante Berlusconi finisce per rappresentare quel contrafforte moderato, pragmatico e ragionevole di cui il grosso dell’elettorato italiano di centrodestra, storicamente poco avvezzo al radicalismo e all’avventurismo, ha comunque bisogno per continuare a riconoscersi politicamente (ed elettoralmente) in quell’area, invece di scegliere una volta per sempre l’astensionismo.
Ciò detto, è anche vero che oggi si raccoglie quel che proprio Berlusconi ha seminato. Un certo estremismo verbale, l’esacerbazione dello scontro ideologico contro “comunisti” e magistrati, gli slogan elementari al posto di qualunque ragionamento, la convergenza tra il parlare semplice e il parlare povero (o semplicemente a vanvera e fuori luogo), sono a ben vedere una delle tante eredità del berlusconismo: a conferma che un conto è dirsi moderato e ragionevole, tutt’altro esserlo realmente. A Berlusconi, in vent’anni e più, non è bastato invocare De Gasperi o Einaudi come propri modelli per riuscire a imitarne lo stile politico.
Ma non basta. Sempre Berlusconi è stato, a ben vedere, colui che più di altri ha osteggiato qualunque possibile tentativo di evoluzione politica-dottrinaria del suo mondo (per quanto velleitaria lo si potesse considerare: pensiamo a Fini) verso lidi diversi dall’antipolitica di stampo cesaristico e demagogico da lui incarnata sin dai suoi esordi sulla scena politica. Berlusconi è uno che ha sempre palesemente confuso il liberalismo politico, alla cui difesa si diceva votato con ogni energia, con la sua personale liberalità (che nessuno, tra i tanti che hanno beneficiato della sua ricchezza e della sua generosità, ha in effetti mai negato). Avere inoltre sempre coltivato una visione personalistica (oltre che al limite del patrimonialismo) del potere non ha certo aiutato a radicare tra i suoi gruppi dirigenti ed elettori una cultura politica di stampo autenticamente liberal-popolare. E i risultati di quest’impostazione si vedono appunto oggi, con la Meloni e Salvini che sembrano riproporre gli stessi stilemi del vecchio capo che così apertamente ormai contestano.
Il problema del centrodestra così come emerge dalla crisi romana, detto in sintesi, è che con le posizioni “radicali” di Salvini e Meloni non si vincerà mai, soprattutto a livello nazionale. E con quelle “moderate” di Berlusconi non si vincerà mai più. I primi al posto del secondo certo determinerebbero un drastico cambio di generazione. Ma di tornare a guidare l’Italia semplicemente non se ne parla. Quella sarà una partita tra Renzi e i grillini.
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