di Alessandro Campi
Berlusconi ha dunque cambiato candidato: da Bertolaso a Marchini. Da un lato è stato un cedimento politico nel segno del realismo, dall’altro un segno di intelligente umiltà, giunto persino troppo tardi, che cambia il significato della sfida romana e la rende finalmente interessante anche dal punto di vista del centrodestra.
Fino a ieri le convulsioni interne a quest’area somigliavano ad una rissa tra amanti traditi, ad un sovrapporsi di rancori personali e di calcoli più maldestri che meschini. Quello che si va delineando adesso è invece un confronto, tutto politico, tra due prospettive o linee politiche che semplicemente non possono più convivere come nel passato. Primo perché Berlusconi non ha più il carisma e la forza del federatore, di colui che tiene insieme tutto e tutti. Secondo, perché le posizioni odierne della Meloni e di Salvini (mutuate in gran parte dal lepenismo) sono molto più radicali di quelle che un tempo avevano Fini e Bossi.
L’inconciliabilità – sul piano dello stile e dei programmi – tra destra liberale o conservatrice e destra radicale è la norma negli altri Paesi europei. E se qualche collaborazione può darsi tra di esse, ciò avviene solo quando è la prima a dare le carte e a dettare la linea. Quello che si stava profilando a partire dal laboratorio romano, con effetti destinati a riverberarsi ben presto a livello nazionale, era invece una sorta di slittamento dal vecchio centro-destra a egemonia moderata, per anni dimostratosi capace di essere forza di governo, ad una nuova destra-centro a trazione populista, il cui rischio maggiore – come mostrano diversi esempi europei – è quello di condannarsi ad una perpetua opposizione pur potendo contare su un significativo consenso elettorale. Il redde rationem fra moderati e populisti che si profila sulla piazza romana – ma che in occasione del prossimo voto amministrativo riguarderà anche altre città – da un lato certamente favorirà la vittoria degli avversari (come sempre quando ci si muove divisi contro un nemico compatto), ma dall’altro potrà portare ad un salutare chiarimento politico-ideologico, dopo troppi e troppo prolungati equivoci.
Aver mollato Guido Bertolaso, il suo candidato di fiducia presentato sino all’ultimo come insostituibile, non dev’essere stato facile per Silvio Berlusconi: uno che ha sempre vissuto le relazioni politiche in una chiave affettiva e sentimentale, come se essere personalmente amici fosse più importante che avere le stesse idee. Ma alla fine ha dovuto rinunciare. I sondaggi riguardanti l’ex capo della Protezione Civile sono sempre stati impietosi, con Forza Italia che rischiava seriamente, con lui in corsa per il Campidoglio, di restare sotto la soglia del 10%. Cambiare cavallo è stata dunque una necessità, pur sapendo che ciò equivale ad ammettere di essersi sbagliato nella scelta, ovvero – secondo la versione preferita dal Cavaliere – di essersi fatto ingenuamente ingannare dai suoi giovami (e ormai ex) alleati: che prima sono convenuti sul nome di Bertolaso e il giorno dopo, senza troppe spiegazioni, sono andati per la loro strada.
Da qui la scelta di sostenere la candidatura di Alfio Marchini. Si potrà dire, a giustificazione di questo drastico ripensamento, che Marchini era un’opzione a suo tempo effettivamente presa in considerazione, ma messa da parte per le riserve sul suo profilo e sul suo nome avanzate in particolare da Giorgio Meloni. E si potrà dire inoltre che si tratta, esattamente come Bertolaso, di un esponente di peso della società civile capitolina: un imprenditore entrato in politica senza avere alcun legame di partito, secondo il copione che il fondatore di Forza Italia ha sempre caldeggiato.
Ma il vero problema a questo punto è capire quanto il nuovo candidato, rispetto a quello vecchio, sia competitivo ora che può contare sul sostegno di Forza Italia e su quello, che si può dare per scontato, della Destra di Francesco Storace. Competitivo non tanto e non solo nella gara per il Campidoglio, dove al momento appaiono avvantaggiati il Pd e il M5S, ma soprattutto – per le ragioni prima accennate – nella gara contro il fronte politico sostenuto da Fratelli d’Italia e dalla Lega.
Lo sconfitto in questa gara tutta interna al vecchio centrodestra sarà lo sconfitto anche in previsione delle prossime elezioni politiche. Se perde la coppia Meloni-Salvini quest’ultima dovrà rientrare necessariamente nei ranghi e quando – nel 2017 o 2018, stante l’attuale legge elettorale – si tratterà di preparare il listone per le politiche dovrà accontentarsi di ciò che le verrà concesso in termini di candidature e seggi. Se perdono Forza Italia e Marchini, invece, è facile prevedere il progressivo slittamento verso Renzi di una quota significativa degli elettori – in Italia ancora la maggioranza – che non amano troppo l’avventurismo e le teste calde. Specie quando si tratta di scegliere da chi farsi governare a livello nazionale.
Nel primo caso, il centrodestra (che a quel punto sarebbe nuovamente a guida moderata) potrebbe anche ricostituirsi e ricompattarsi. Nel secondo, esso sarebbe finito per sempre e acquisterebbe forza e plausibilità, agli occhi di gran parte del mondo berlusconiano e moderato, il progetto renziano del Partito della Nazione.
* Editoriale apparso su “Il Mattino” (Napoli) del 29 aprile 2016.
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