di Giuseppe Perconte Licatese

downloadDicembre 1971. Due giovani studenti siedono nel soggiorno di una casa a Plettenberg, nel Sauerland. Intorno a loro, un’imponente biblioteca che nella sua storia è sopravvissuta, con perdite, alle annessioni francesi dopo il crollo del Secondo Impero, alla fine burrascosa di un primo matrimonio e alla requisizione da parte dell’autorità militare americana nella Berlino quadripartita. Il padrone di casa, generoso nello stappare bottiglie di vino della Mosella per i suoi ospiti, chiama la dimora la sua “San Casciano”, perché come Machiavelli è stato allontanato dalla vita pubblica, ma da lì continua a pensare la politica. Fu questa la scena dell’intervista condotta da Dieter Groh e Klaus Figge con un Carl Schmitt ottantatreenne, oggi anche per il lettore italiano documento di quella che per il professore di diritto pubblico fu, dopo il divieto d’insegnamento inflittogli per la sua adesione al nazismo, una seconda vita intellettuale fatta di frequenti (ed eccellenti) visitatori e fitte corrispondenze entro e fuori i confini della Germania ovest (Carl Schmitt, Imperium, Quodlibet, 292 pp., 26 euro).

L’interrogativo dei due intervistatori è perentorio: “perché ha partecipato al potere di Hitler?”. “Perché mai ho partecipato al potere politico”, precisa l’intervistato: in quel momento la politica tedesca non era ancora dominata dal futuro capo totalitario, giunto al potere certo per un’ostinazione e un fiuto tattico fuori dal comune, ma in fondo impreparato e imprevedibile come – è l’immagine che viene in mente a Schmitt – il toro che all’inizio della corrida è spinto al centro dell’arena, dopo essere stato tenuto al buio e in isolamento per ore. L’intervista ricostruisce le mosse del generale Schleicher (ultimo cancelliere repubblicano, che pagherà con la vita l’ostilità al partito nella “notte dei lunghi coltelli”) e della sua cerchia militar-conservatrice, cui Schmitt era vicino. Gli argomenti di diritto costituzionale considerati per mantenere il potere senza dare luogo a un patente “stato d’eccezione” (illegalità contro cui Hitler aveva gioco di scagliarsi per esigere nuove elezioni) si intersecano qui a potenti elementi narrativi: il presidente Hindenburg, figura di una fatale indecisione (“ditemi”, era la domanda rivolta ai suoi consulenti durante le crisi di governo, “cosa è costituzionale”), ufficiali col genio delle citazioni (“e un piacere di morte afferra anche i popoli”, dice a Schmitt uno di loro di fronte a un corteo delle SA), un ambasciatore francese noto “per avere orecchi ovunque”, e quanti  (intellettuali disorientati, ebrei preoccupati, gente comune) si avvicendavano in casa Schmitt a chiedere consiglio (“che fare?”). Quando poi Hitler, dopo essere entrato attraverso la porta della legalità, se la sarà chiusa alle spalle consolidando la sua posizione con la “legge dei pieni poteri”, Schmitt sarà persuaso da un alto funzionario prussiano e suo intimo amico, Johannes Popitz, a collaborare con il regime per isolare la guida dello Stato delle componenti più ideologiche del partito. Il resoconto di Schmitt, cronologicamente preciso (lo aiutano i calendari annotati di quegli anni), non può però illuminare tutti gli snodi e i fattori della storia e lo stesso intervistato oscilla tra la volontà di chiarire il suo ruolo nelle vicende e la rinuncia a una vera difesa, limitandosi a esporre le scelte compiute in una strana docilità al fluire degli eventi. Schmitt lascia intendere di non aver avuto, in fondo, molto più discernimento del toro nell’arena.

Se durante la narrazione gli intervistati lasciano parlare Schmitt quasi senza interromperlo, né gli chiedono conto di ben più controverse prese di posizione successive, il dialogo si fa vivace quando tocca argomenti culturali e filosofici: la critica letteraria e la storia del cristianesimo, la dialettica tra parola e scrittura e quella tra cattolici e protestanti, la notazione musicale e Max Weber. Tra gli altri affiora anche il tema, dissimulato in una digressione ma suggestivamente portato in evidenza nel titolo, dell’imperium, il concetto giuridico-politico in cui è adombrata l’immagine misteriosa del katéchon paolino, il potere che differisce il dilagare del male e con esso la fine della storia. Questione centrale del pensiero di Schmitt, il lettore scoprirà tuttavia che non esso, ma piuttosto la sua mancanza è la chiave di lettura della “tragedia” del popolo tedesco, cui il giurista “non volle sottrarsi”.

 

 

 

 

 

 

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