di Alessandro Campi
I rapporti di Berlusconi con Confindustria non sono mai stati facili. Nemmeno ai tempi di Antonio D’Amato, il presidente forse più politicamente vicino al leader di Forza Italia, con il quale condivise nel 2002, all’epoca del suo secondo governo, la sfortunata battaglia per l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Il Cavaliere – costruttore edile rampante divenuto, nella sorpresa generale, un magnate nel campo della pubblicità e della televisione commerciale – si è sempre considerato un outsider rispetto al gotha delle famiglie imprenditoriali italiane, che avevano nella Mediobanca di Cuccia il loro salotto si troppo riservato ed eslusivo. Queste ultime, a loro volta, col tratto sprezzante e miope tipico delle oligarchie che si autoriproducono per cooptazione nell’attesa di estinguersi, lo hanno spesso trattato da parvenu o da eccentrico. Nella migliore delle ipotesi, come pensò cinicamente Gianni Agnelli, alla stregua di un pazzo avventuriero che, in caso di successo contro la sinistra, come in effetti avvenne, avrebbe comunque fatto il gioco (e gli interessi) anche di coloro che – come lui e i suoi colleghi appartenenti al cosiddetto “salotto buono” – avevano preferito non sporcarsi le mani nell’attesa di capire chi, dopo lo sfascio di Tangentopoli, avrebbe conquistato il potere.
Proprio questa ragione, Berlusconi, sin dalla sua iniziale discesa in campo, ha sempre preteso di parlare direttamente agli imprenditori, ai self made men come lui, agli industriali piccoli e medi radicati nella provincia italiana, non ai loro rappresentanti istituzionali giudicati spesso troppo corrivi col potere romano e interessati unicamente alla tutela dei grandi gruppi industriali in combutta con le banche e i ministeri. Ed i rappresentati dei primi, uomini del fare come lui, ha sempre cercato di portare nel Parlamento e al governo attraverso il suo partito.
E’ rimasto alla cronaca, a testimonianza di queste controverse relazioni, l’episodio di Silvio Berlusconi, afflitto sino al giorno prima da una fastidiosa lombosciatalgia, che nel marzo del 2006, in piena campagna elettorale contro Romano Prodi, si presentò dolorante ma combattivo all’assemblea degli industriali vicentini e attaccò a testa bassa, tra le urla e i fischi di approvazione dei piccoli imprenditori veneti e il gelo dei capi di Confindustria presenti in sala, i giornali che a suo dire spargevano notizie pessimistiche sull’economia italiana e quegli imprenditori che, contro i loro stessi interessi, erano schierati con la sinistra e la magistratura militante. Fuori di sé dalla rabbia Berlusconi se la prese anche con la radio del quotidiano confindustriale, “che tutte le mattine attacca il governo”. Ne nacque un epico scontro con Diego della Valle, seduto in platea e oggetto principale dei suoi strali, e un raffreddamento dei rapporti col presidente dell’epoca Luca Cordero di Montezemolo, che evitò di commentare l’episodio – come disse con la solita diplomazia – “solo per rispetto delle istituzioni”.
Se questa è la storia dei rapporti non propriamente idilliaci tra Berlusconi e Confindustria, il virulento attacco politico che egli a rivolto nei giorni scorsi al nuovo capo degli industriali italiani, Vincenzo Boccia, difficilmente può essere considerato un episodio inedito. L’accusa stavolta è di aver assunto un atteggiamento troppo filo-governativo sul referendum costituzionale del prossimo ottobre. Essersi schierati per il “Sì”, come ha fatto Boccia nel suo recente discorso d’insediamento, implica secondo Berlusconi una condizione di sudditanza politica e psicologica nei confronti di Matteo Renzi, che con la riforma da lui voluta rischia di diventare il «padrone del partito, del Parlamento e del Paese» e di dare vita ad un regime illiberale.
Se la polemica contro Confindustria in sé non è dunque una novità, merita però attenzione il problema politico generale che queste parole e quest’atteggiamento, all’insegna dello scontro frontale, denotano. Problema che ha a che vedere con lo spazio politico-elettorale che il centrodestra berlusconiano ha lungamente occupato e che da due anni a questa parte si trova ad essere sempre più insidiato da Matteo Renzi. Sono in molti a sostenere che le modifiche costituzionali votate dal Parlamento con l’opposizione di Forza Italia e dei suoi alleati storici della destra (e sulle quali ora dovranno pronunciarsi gli italiani) sono, a ben vedere, le stesse per le quali Berlusconi si è sempre battuto. Giudicarle ora una minaccia per la democrazia, come fanno gli avversari di sinistra di Renzi, appare davvero una posizione contraddittoria e difficile da sostenere anche agli occhi dei propri sostenitori.
Quanto a Confindustria, Berlusconi dovrebbe sapere che il nuovo presidente Vincenzo Boccia è l’espressione di quella piccola e media imprenditoria italiana che per lungo tempo si è sentita poco rappresentata all’interno del proprio sindacato nazionale e che negli ultimi tempi si è dovuta duramente confrontare, soprattutto nel Mezzogiorno, con gli effetti della crisi economica internazionale. E’ vero che vanta una lunga militanza nella struttura di Viale dell’Astronomia (dove ha ricoperto a partire dal 2000 numerosi incarichi di vertice), ma per come è stato eletto (dopo un duro scontro interno con l’imprenditore bolognese Alberto Vacchi, sostenuto da Montezemolo, da Assolombarda e da molti dei grandi gruppi industriali del Nord), è anche vero che rappresenta una netta discontinuità rispetto alla Confindustria dei “soliti noti” con la quale Berlusconi ha spesso polemizzato.
Oltretutto Boccia eredita, dopo la clamorosa dissociazione della Fiat e la delegittimazione dei corpi intermedi di rappresentanza che proprio Renzi ha condotto in questi anni, una realtà palesemente indebolita nella sua base associativa, nel funzionamento delle sue articolazioni periferiche, nella sua capacità di incidenza politica, nella sua stessa autorevolezza e immagine a livello di dibattito pubblico. Delegittimarla ulteriormente con l’accusa di essere troppo prona al governo, come ha fatto ieri Berlusconi, è dal punto di vista di quest’ultimo un errore politico, che rischia di alienargli quella base confindustriale – fatta in larga parte di piccoli e medi imprenditori in cerca di voce politica e di qualcuno che li rappresenti efficacemente a livello nazionale soprattutto in questa fase di crisi – alla quale il Cavaliere ha sempre saputo (e voluto) parlare, ma con la quale sta perdendo la sintonia.
Il rischio di quest’atteggiamento è, per Berlsuconi, duplice: vedere ridurre ancora di più la sua storica base di consenso; appiattirsi sempre di più, sul piano dello stile e dei contenuti, sul populismo salviniano. Per chi ancora si considera – peraltro non senza ragioni – il capo dei moderati italiani, quella di ieri non è stata insomma un’uscita particolarmente felice, a dimostrazione della difficoltà cha ha il centrodestra, da quando Renzi si è furbescamente appropriato di molti suoi temi, a ritrovare una via politica che non lo condanni ad una sterile opposizione e ad una sconfitta annunciata.
Lascia un commento