di Shila Hosseini
In Egitto nella settimana tra il 5 e il 12 aprile si è tenuto il vertice tra il re saudita Salmān e il presidente egiziano Abd al- Fattah al- Sisi. Il vertice si è concluso suscitando un’ondata di malcontento nel Paese che nei giorni successivi ha portato all’incarcerazione di 150 persone tra attivisti e oppositori del regime. L’opposizione ha infatti aspramente contestato la cessione delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita in cambio dell’impegno da parte del re saudita di investire 12 milioni in infrastrutture e in aiuti economici al Paese.
Già nel 2013 l’Arabia Saudita aveva elargito importanti aiuti all’Egitto schierandosi non solo contro la Fratellanza musulmana, ma affermando di volerlo fare contro tutti coloro che fossero intervenuti nella politica interna egiziana. Tuttavia, la cessione fatta all’Arabia Saudita viene contestata nel Paese perché concerne l’interesse nazionale e per questo, secondo alcuni, dovrebbe essere sottoposta a referendum popolare. Lo scorso 21 giugno, infatti, la sentenza del vicepresidente del Consiglio di Stato el- Dakroury ha annullato la cessione delle due isole; la sentenza, già entrata in vigore, potrebbe essere ribaltata se il Governo egiziano facesse ricorso al Consiglio di Stato entro sessanta giorni.
Le isole in questione sono inabitate e prive d’interesse economico, ma la loro posizione geostrategica ne ha fatto il pretesto per lo scoppio di ben due guerre mediorientali: situate nel Mar Rosso, all’imbocco del Golfo di Aqaba, rappresentano il punto di passaggio obbligato per le navi che vogliano giungere o partire da Israele e dalla Giordania. Appartenute storicamente all’Impero ottomano e successivamente ai sauditi, passarono all’Egitto nel 1950 e furono temporaneamente occupate da Israele in due occasioni, nel 1956 e nel 1967 fino agli accordi di Camp David del 1979. L’art. 5 dell’accordo di Camp David predispone che le isole non ospitino basi militari né che siano usate per impedire il passaggio alle navi. Qualora il passaggio all’Arabia Saudita venisse confermato dalla sentenza d’appello del Consiglio di Stato e dalla ratifica del parlamento egiziano, non ci sono dubbi che l’art. 5 di Camp David verrebbe rispettato dall’Arabia Saudita.
Proprio il ruolo israeliano nella vicenda merita una menzione particolare. Fino al giorno dell’accordo tra Arabia Saudita ed Egitto, i rapporti manifesti tra lo Stato Saudita ed Israele sono sempre sembrati, tesi in quanto i sauditi non hanno accolto favorevolmente la nascita dello Stato israeliano in Palestina e i due Paesi si sono sempre contesi la custodia della terza città santa musulmana, Gerusalemme. Ora, tuttavia, è probabile che la strategia mediorientale dei due attori converga. Lo aveva già fatto nel 2008 quando l’Arabia Saudita aveva finanziato l’operazione “Piombo Fuso” sulla Striscia di Gaza contro i miliziani di Hamas.
Fonti ufficiali del governo israeliano, infatti, affermano di essere state precedentemente informate dall’Egitto della cessione e di aver ricevuto rassicurazioni dal governo saudita. Il dialogo tra il governo saudita e quello israeliano, infatti, è proceduto per mesi anche se in modo segreto, in concomitanza con i negoziati sul nucleare tra Washington e Teheran. Gli interessi dei due Stati al momento convergerebbero nella volontà di uscire dall’isolamento diplomatico di cui soffre soprattutto l’Arabia Saudita, a seguito dello spostamento del baricentro della politica mediorientale statunitense dall’Arabia all’Iran, e nella paura di accerchiamento di cui entrambi i Paesi soffrono. Da una parte, infatti, Israele teme un rafforzamento degli Hezbollah finanziati dall’Iran, che con il placet dell’Arabia Saudita sono stati iscritti tra i movimenti terroristici, dall’altra l’Arabia Saudita teme il rafforzamento delle forze sciite al confine con Siria, Yemen, Bahrein, Iraq.
In definitiva, la cessione delle due isole da parte dell’Egitto, anche qualora una sentenza definitiva dovesse revocarla, ha offerto al re saudita la possibilità di intessere con Israele un dialogo ufficiale senza rispondere delle critiche che certamente sarebbero venute dal mondo arabo se non fosse stato presentato un buon pretesto. All’indomani di questo accordo, infatti, l’Arabia Saudita si appresta a costruire una grande ambasciata saudita a Tel Aviv e a promettere ad Israele la concessione all’utilizzo di una parte del suo spazio aereo in caso di attacco ai siti nucleari iraniani.
Anche qualora le isole venissero revocate all’Arabia Saudita e tornassero ad essere territorio egiziano, l’Egitto rimarrebbe nell’orbita saudita che, con il benestare d’Israele, si è estesa a tutto il Mar Rosso e controlla i porti yemeniti per impedire rifornimenti iraniani. La convergenza in una strategia mediorientale comune da parte di Egitto, Israele e Arabia Saudita sembra, inoltre, intenzionata a coinvolgere un nuovo attore, la Turchia. Ankara, infatti, a sei anni dalla crisi della Mavi Marmara, sembra voler normalizzare i rapporti sia con Israele, impegnandosi affinché Hamas non svolga attività contro Tel Aviv passando per i suoi territori, sia con l’Arabia Saudita, come dimostra la recente visita del re Salmān nel Paese. Tuttavia, la nuova coalizione, strumentale a fare da contraltare all’Iran in Medio Oriente, non sembra sostenuta da un progetto duraturo. Si possono, quindi, sollevare dubbi sulla contingenza di questa strategia che, in mancanza del contraltare iraniano, potrebbe venir meno.
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