di Federico Donelli

imagesIl fallito colpo di Stato in Turchia del 15 luglio segna immancabilmente un’altra tappa delle convulse e drammatiche vicende mediorientali, entrando prepotentemente nella storia più recente del paese anatolico. Mentre in Turchia si cerca di tornare a una normalità che risulterà diversa, tanto nella forma quanto nella sostanza, da quella di venerdì pomeriggio, gruppi di analisti, giornalisti, fini studiosi e, probabilmente, le stesse diplomazie straniere provano a capire cosa veramente sia successo, azzardando previsioni sugli scenari futuri. La presente analisi, pur tenendo in considerazione la natura in fieri degli eventi, prova a fare ordine su ciò che è accaduto, evidenziando alcuni dati politici, e non solo, che il fallito golpe ha fatto emergere.

Una prima ipotesi fonda sull’idea che il tentativo di colpo di stato abbia effettivamente rappresentato una nuova tappa, la quinta dalla nascita della Repubblica nel 1923, dell’intervento militare nell’arena politica turca, legittimato dal ruolo di garante della eredità kemalista e costituzionalmente riconosciuto a partire dal 1961. Tale assunto, se confermato, ascriverebbe il coup al reiterarsi di un meccanismo consolidato, declinato nei decenni in forme diverse, che pone l’esercito a garanzia dello Stato e della società pensati e strutturati come fossero un corpo unico. Una tesi che non tiene conto di diversi elementi; in particolare occorre sottolineare come a mutare dall’ultimo intervento militare – il cosiddetto colpo di stato post-moderno del 1997 – siano stati: il sistema internazionale, il contesto sociopolitico interno e la composizione dell’apparato militare turco. Ignorare o non attribuire il giusto peso a questi cambiamenti ha spinto molti osservatori a credere di trovarsi di fronte a una sceneggiatura già nota, intravedendo frettolosamente la fine dell’era Erdoğan. La grande differenza rispetto al passato è che oggi l’esercito non rappresenta più un blocco coeso e compatto, ma una istituzione eterogena al cui interno convivono, o tentano di convivere, diverse anime della società turca. In altre parole, l’approccio miope di alcuni osservatori ha spinto a sottovalutare non solo il radicale cambiamento all’interno dei quadri militari avviato dal partito di Erdoğan (AKP) nell’ultimo decennio ma, ancora di più, il fatto che la società turca di oggi sia profondamente diversa rispetto al 1997.

Assumendo l’ipotesi di cui sopra come veritiera, sembrerebbe che dietro al tentato golpe vi siano ufficiali di medio rango espressione della corrente di Islam eterodosso guidato da Fethullah Gülen. Gülen è un imam, politologo e magnate turco divenuto “hoca” (maestro) del movimento neo Nurcu “Hizmet” il cui obiettivo è affermarsi nell’universo islamico con una dottrina adatta al mondo moderno, globalizzato e tecnologico e, al tempo stesso, di proporsi in alternativa al radicalismo islamico con una versione di Islam che non faccia paura e non abbia paura del confronto con altre religioni e culture. Nonostante il movimento del predicatore – da tempo rifugiatosi negli Stati Uniti – sia stato da tempo estromesso dagli affari politici turchi dopo un decennio a braccetto con il partito di Erdoğan (AKP), continua ad avere seguaci (fethullahçi) inseriti in diversi ranghi delle forze armate e della burocrazia turca, compresa la magistratura. La convergenza di tali elementi evidenzia come i militari golpisti non siano espressione del messaggio laico kemalista ma, piuttosto, i figli di una classe media musulmana – la stessa da cui proviene un importante bacino elettorale dell’AKP – che, a partire dagli anni novanta, ha goduto della riabilitazione della dimensione religiosa nella sfera pubblica prima e partitica poi.

La semplicità e la rapidità con cui il colpo di stato è stato sventato spingono a pensare che o i golpisti abbiano compiuto una azione mal preparata, sperando forse in un sostegno maggiore da parte della popolazione e delle cancellerie straniere, oppure che nelle stanze del potere fossero da tempo a conoscenza del piano e abbiano scientemente lasciato fare, con la consapevolezza di poter sfruttare a proprio vantaggio la situazione. Infatti, appare quantomeno inverosimile che in un paese come la Turchia, i cui i servizi segreti (MIT) godono di risorse e – soprattutto – discrezionalità illimitata, nessuna notizia sia trapelata in anticipo. Dubbi che alimentano un’ipotesi alternativa alla versione ufficiale, ossia che proprio l’intelligence turca sarebbe la mente di uno dei più grandi “bluff” o inganni della recente storia politica mediorientale. Una manovra orchestrata alla perfezione, finalizzata a consolidare il potere nelle mani dell’esecutivo turco, riabilitare la figura del Presidente Erdoğan a livello internazionale e “disfarsi” dei nemici interni agli apparati statali, su tutti i membri del movimento di Gülen. Uno scenario plausibile, a cui potrebbero aggiungersi ulteriori elementi tra cui l’atteggiamento accondiscendente degli Stati Uniti e della Russia (Kerry era a Mosca), ma anche dell’Unione Europea, tre attori interessati ad avere una Turchia forte nella regione, in grado di contrastare l’avanzata Daesh, regolare il flusso di migranti e assicurare stabilità ai futuri equilibri siriani.

Valutate alcune delle ipotesi dietro il fallito colpo di Stato, risulta altrettanto importante analizzare ciò che il 15 luglio lascia in eredità, oltre ai quasi trecento morti e all’ondata di arresti (oltre 6.000). Aspetto che preme sottolineare è come a cambiare sia stata la stessa società turca, in cui il ritorno dell’Islam a uno spazio pubblico e politico rappresenta una sconfitta del dogma di Mustafa Kemal (Atatürk). Un processo lungo, avviato da un altro colpo di Stato militare, quello guidato dal generale Kenan Evren nel 1980, in cui a mutare è stata la visione del mondo e soprattutto la “percezione del Sé” turca, ammantata da forme ideologiche spesso volubili e sovrapponibili: sintesi turco-islamica, özalismo, millî görüş, neo-ottomanismo. Di conseguenza, il grido “Allah Akbar” di molti dei manifestanti scesi per le strade di Ankara e Istanbul in risposta al videomessaggio di Erdoğan e alla chiamata delle moschee (durata tutta la notte e il giorno a seguire), testimonia un complesso e totale ribaltamento del linguaggio e della simbologia politica, ma soprattutto il superamento dell’idea di società monolitica promossa dal Kemalismo. La folla di civili che prende possesso dei carrarmati a sostegno di Erdoğan, pur rappresentando solo una parte della società turca, assume un valore simbolico maggiore rispetto all’immediato dato politico: il definitivo passaggio dal Kemalismo al post-Kemalismo.

A uscire rafforzato dal fallimento del coup è Erdoğan che, probabilmente, sfrutterà la vicenda per assestare un ulteriore colpo al movimento dell’ex “amico” Gülen e a quanti, all’interno del paese e, in misura ridotta, del suo stesso partito hanno provato a manifestare dissenso. La Turchia era e rimane un paese profondamente diviso, in cui il rischio è il consolidamento del “presidenzialismo sultanale” e della ristretta cerchia di decisori politici vicini a Erdoğan, nonché l’accentuarsi della polarizzazione politica e sociale. Sullo sfondo permangono la crisi siriana, i discutibili rapporti con i gruppi di Islam radicale, una guerra civile nelle province del sud-est a maggioranza curda e la forte sensazione che il corso intrapreso dal paese verso una forma di “Erdoğanismo” sia difficilmente arrestabile e, altrettanto difficilmente, invertibile.

 

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