Alia K. Nardini
È davvero brutta politica quella a cui si è assistito ieri notte all’università di Washington, St. Louis, durante il secondo dibattito presidenziale. Assomiglia, a detta stessa dei presentatori della CBS, che introducono l’evento, più a un reality show che ad uno scambio formale e sensato di idee politiche, cifre e statistiche. Quello che invece ha predominato è la frustrazione di due candidati incapaci di trovare un canale di comunicazione condiviso.
Donald Trump è apparso certo di essere vittima di un complotto. Sia i moderatori, che la stampa, e persino parte del suo stesso partito, sostiene l’imprenditore, si ostina a ignorare le evidenti mancanze di Hillary: dalla difesa di un presunto sexual offender quando ancora esercitava la professione di avvocato, all’attacco senza esclusione di colpi alle donne che accusarono Bill Clinton di tentata violenza sessuale, sino alle email inviate dal suo server privato quando era Segretario di Stato, e poi distrutte. Il media bias, secondo Trump, è evidente: “siete 3 contro 1”, ha affermato sarcastico rivolto ai moderatori, Anderson Cooper della CNN e Martha Raddatz della ABC quando si rifiutano di incalzare l’ex Segretario di Stato sulla questione delle emails. Cosa mai potrebbe contare qualche battuta da bar sulle donne (locker talk), di fronte al pericolo dell’ISIS, che invece Trump, come commander in chief, saprebbe affrontare risolutamente? L’alternativa, chiarisce l’imprenditore, è una donna che potrebbe distruggere l’America come è accaduto a Benghazi, e che non ha mai fatto nulla di concreto nella sua carriera politica.
Hillary Clinton è apparsa chiaramente esasperata nel doversi confrontare con le accuse del suo avversario; ciò nonostante, ha tentato per tutto il dibattito di mantenete quella che i media americani chiamano una condotta “presidenziale”: composta, puntuale, competente, rassicurante. Questo ha d’altronde portato Clinton ad essere meno brillante, meno pronta a cercare la battuta e strappare un sorriso al pubblico, rispetto al primo dibattito. L’ex Segretario di Stato è apparsa spesso eccessivamente formale e “costruita” nelle sue testimonianze. Seppur notevolmente meno affaticata rispetto al primo dibattito, in cui stava riprendendosi da una polmonite, il suo impegno per stabilire una connessione emotiva con il pubblico (un compito nel quale Trump non si è neppure cimentato), non ha dato buoni risultati tra gli indecisi. Hillary è apparsa a tratti palesemente incredula di dover persino prendere parte a questo confronto. A pochi giorni dall’appello di alcuni esponenti del Partito Repubblicano affinché Trump abbandoni la campagna presidenziale, lasciando a Mike Pence il compito di guidare il ticket Repubblicano, sembra che Clinton non si capaciti di non avere ancora la vittoria in tasca.
Benché gli ultimi sondaggi (RCP average) vedano Hillary Clinton al comando di più di 4 punti percentuali, 47,5 contro ai 42,9 di Trump, la politica statunitense ha ben poco di cui rallegrarsi. La squadra di The Donald può concludere di aver ottenuto un buon risultato, semplicemente perché il suo paladino “non ha avuto un crollo psicotico in diretta”, come conclude questa mattina il Weekly Standard. Se il primo dibattito si era chiuso in un sostanziale pareggio, terminare il secondo dibattito rimanendo in piedi è per Trump indubbiamente una vittoria. Altro successo per l’imprenditore newyorkese è stato innegabilmente l’aver fatto sì che il partito, nelle sue cariche più alte, non lo abbia abbandonato ufficialmente. Mike Pence, Paul Ryan e Reince Priebus, che realisticamente hanno l’ultima parola sul ticket presidenziale in quanto rispettivamente aspirante vicepresidente, speaker alla Camera e presidente della Commissione nazionale del partito Repubblicano, sembrano intenzionati a confermare, seppur in maniera riluttante, il sostegno a Trump.
I commentatori che decretano la vittoria di Hillary Clinton nel dibattito di ieri sono vittima della loro parzialità: sebbene più capace secondo gli standard tradizionali della politica, compostezza, conoscenza, esperienza non sono caratteristiche che gli elettori nella loro totalità sembrano univocamente apprezzare al giorno d’oggi -in America, così come nel resto del mondo. Sostanzialmente, il messaggio di Hillary Clinton è quello di ripetere ai cittadini statunitensi che le cose non vanno così male come descrive Trump, che l’America è ancora un grande paese, che ha conseguito grandi traguardi e che, unito, può superare ogni ostacolo. Chiaramente, questo non è essere sufficiente per convincere a votare per lei tutti coloro che sono stati delusi dalla riforma sanitaria, che provano ribrezzo nei confronti di una politica corrotta e lontana dalla gente comune, che non hanno beneficiato della ancor troppo debole e incostante ripresa dell’economia e dell’occupazione, che vedono un’America poco incisiva sul piano internazionale. A Hillary, così come all’élite del partito Democratico, manca la percezione di quello che molti, moltissimi americani vedono di positivo in Trump. All’indomani delle rivelazioni scandalistiche che quasi certamente costeranno la Presidenza a The Donald, la vera sfida che attende l’America nel 2017 sarà riconciliare ancora una volta le diverse anime del paese in un solo popolo: e pluribus, unum.
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