di Alessandro Campi

imagesLa vicenda della sinistra del Partito democratico somiglia ormai ad uno psicodramma, peraltro sempre più monotono e ripetitivo. L’ultima direzione nazionale ha confermato un copione fattosi col tempo noioso. I soliti toni forti della vigilia, che lasciano immaginare chissà quale drammatico giorno del giudizio, una discussione accesa e dai toni veementi, ma al momento di votare o ci si allinea docilmente alla maggioranza (come è successo tante volte in passato) oppure (come in questo caso) si preferisce non partecipare alla conta. Anche stavolta peraltro è stato adombrato lo spettro di una scissione data quasi come inevitabile, ma altrettanto puntualmente sono arrivate le smentite e le precisazioni, non si capisce se dettate da un tardivo buon senso o dalla paura di dover imboccare sul serio, a furia di minacciarla, una strada senza ritorno.

Il problema, sembrerebbe, è che gli oppositori interni di Renzi, per quanto agguerriti e pronti (apparentemente) a tutto, non hanno ancora chiarito a se stessi qual è il loro vero obiettivo politico. Vogliono riprendersi il partito dopo averne perso il controllo, speranza in sé legittima, o fondarne uno nuovo che sia una versione edulcorata e in miniatura del vecchio Pci nel quale molti di loro si sono formati e del quale sentono evidentemente una nostalgia fattasi insopprimibile? Ce l’hanno con la linea politica del segretario, un riformismo liberale che inclina troppo a destra e al quale sembra vogliano contrapporre una visione di socialdemocrazia classica, o con il suo modo di essere e di fare, che in effetti è talvolta tra il cinico e l’irridente verso i propri interlocutori? Hanno un’idea del governo del Paese alternativa a quella di Renzi o più semplicemente si accontenterebbero che non fosse quest’ultimo a guidarlo?

Al tempo stesso, parliamo di oppositori che non sembrano uniti e compatti come dovrebbero o come vorrebbero far credere, visto che uno minaccia le dimissioni e l’altro giura che non lascerà mai il Pd, uno si dice disposto al confronto mentre l’altro chiude ogni prospettiva di dialogo, uno media e l’altro insulta. E forse nemmeno sono animati dalle stesse, buone o cattive, intenzioni. Nessuno ha ancora capito bene, ad esempio, dove finiscano i dissidi di linea politica o culturale e dove comincino invece i rancori personali e il desiderio di vendetta privato. Qualcuno, tra gli avversari di Renzi, sarà certamente preoccupato dal suo disegno politico, giudicato troppo personalistico e accentratore, ma qualcun’altro, per dirla con franchezza, sembra piuttosto preoccupato di come salvaguardare la propria (spesso già assai lunga) carriera. Senza contare che a furia di criticare, attaccare, polemizzare, di impuntarsi e denunciare sfracelli, si rischia di trasmettere una cattiva impressione di sé anche ai propri seguaci o simpatizzanti, che infatti cominciano a non poterne più di una minoranza che appare più impegnata a combattere il proprio segretario che quelli degli altri partiti. Dall’opposizione permanente allo spirito distruttore fine a se stesso il passo è in effetti assai breve.

Si tratta infine di un’aggregazione che non si capisce bene da chi sia guidata, il che forse ne spiega gli atteggiamenti talvolta ondivaghi, contraddittori e strumentali (tipo aver votato la riforma costituzionale in aula, foss’anche per disciplina di partito, e ora fare campagna per il “no” al referendum). D’Alema ne è l’ispiratore politico dall’esterno, Bersani la guida morale o il padre saggio, Speranza il coordinatore e l’aggregatore, Cuperlo l’anima intellettuale e il volto tormentato, Orlando la carta segreta se mai Renzi dovesse avere un’incidente parlamentare, ma troppi capi, reali o potenziali, è come non averne nessuno.

Detto tutto quel che di critico si poteva e doveva dire della minoranza del Pd, un merito grandissimo le va comunque riconosciuto nel desolante panorama italiano: quello di esistere. Velleitaria o generosa che la si voglia giudicare, si tratta appunto di una minoranza che combatte alla luce del sole la sua battaglia politica dentro il partito, come era un tempo la regola o la normalità. Segno che nel Pd, a dispetto delle convulsioni che sta vivendo, ancora sopravvive un po’ di sana dialettica politica, con posizioni interne che si contrappongono e si mettono pubblicamente a confronto. Mentre altrove– dal M5S a Forza Italia, passando per la Lega – sembra invece prevalere l’unanimismo del leader (intorno al quale tutti finiscono per appiattirsi) e il conseguente conformismo dei gregari.

Non che negli altri partiti non esistano divisioni e contrasti. Pensiamo solo alle liti recenti che hanno coinvolto il gruppo di vertice del movimento di Grillo o a quelle scatenatesi tra i maggiorenti del centrodestra berlusconiano dopo che il Cavaliere ha affidato a Stefano Parisi la missione di rivitalizzare l’area politica dei moderati. Ma l’impressione è che in questi casi si tratti di personalismi, di faide, di lotte sorde dietro le quinte tra piccoli gruppi di potere che non sono espressione di una cultura o tradizione politica, che non hanno un preciso disegno politico da affermare, ma semplicemente lottano per la propria affermazione e sopravvivenza.

La scomparsa in Italia dei partiti politici, trasformatisi con passare degli anni in proprietà individuali del capo, in cartelli elettorali temporanei o in comitati d’affari, ha significato anche la scomparsa della loro vivacità o pluralità interna, che implicava la coesistenza sotto lo stesso tetto – come del resto ancora avviene nei partiti delle altre democrazie occidentali – di posizioni spesso anche assai diverse, senza che ciò debba necessariamente precludere a scissioni, strappi e abbandoni, o peggio a epurazioni nei confronti dei dissidenti o dei fuori linea. Era una ricchezza – culturale e ideale, prima che politica – che in Italia si è totalmente persa e della quale un barlume sopravvive appunto nell’attuale Pd. Alla cui minoranza, non fosse che per questa ragione, non si può dunque che augurare una lunga vita.

* Editoriale apparso sul “Messaggero” (Roma) di mercoledì 12 ottobre 2016.

 

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