di Alessandro Campi

downloadNelle democrazie serie e funzionanti ci si chiede cosa facciano i rappresentanti del popolo all’interno delle assemblee. Quanto e come lavorano? Di quali servizi e supporti tecnici possono usufruire per assolvere al meglio le loro funzioni? Attraverso quali modalità rendicontano e rendono pubbliche le loro attività? In quella italiana la domanda – che si ripete ossessiva – è invece un’altra: quanto guadagnano? E la risposta è sempre la stessa: troppo.

Intendiamoci, il problema dei costi della politica è serio. In Italia, come molte indagini hanno dimostrato, essi sono sempre stati mediamente maggiori che in altre democrazie occidentali. Anche se le comparazioni su questo terreno rischiano di essere fuorvianti, specie se ci si limita a mettere a confronto valori assoluti. La differenza di popolazione è già di per sé una variabile importante. Ma bisognerebbe soprattutto chiedersi cosa fanno di diverso, ad esempio, la House of Representatives statunitense e l’Assemblée nationale francese rispetto alla Camera dei Deputati italiana prima di dire che quest’ultima costa troppo e spreca i soldi dei cittadini. Così come non bisognerebbe mai confondere tra la retribuzione/stipendio del singolo deputato o senatore e ciò che la sua funzione o carica costa, in termini di servizi e spese indirette, alla collettività.

Ciò non toglie che nel passato, per quello che riguarda i nostri parlamentari, si sia esagerato coi vitalizi, i rimborsi, le indennità e le diarie. Ma è anche vero che nel tempo, sotto la pressione di un’opinione pubblica scossa dai troppi scandali e di un bilancio statale sempre più risicato, le loro retribuzioni sono state significativamente ridotte e molti dei privilegi di cui godevano sono stati revocati, così come sono diminuiti i costi di funzionamento complessivi delle nostre principali istituzioni.

Il problema, come dimostrano le polemiche di queste ore seguite alla proposta grillina di dimezzare del 50% l’indennità dei parlamentari e di ridurne ulteriormente le diarie, è se esiste un livello di costo dei nostri rappresentanti che si possa considerare giusto, equo ed accettabile dal punto di vista del cittadino-contribuente. L’impressione, da quando l’attività politica è stata colpita da un crescente discredito sociale, è che chiunque l’eserciti, dal consiglio comunale al parlamento nazionale, sia per definizione uno che ruba lo stipendio alle spalle della povera gente. Settemila euro, tremila o mille non fa differenza: per chi è disoccupato, sfiduciato o cronicamente arrabbiato saranno sempre troppi soldi dati a qualcuno che non li merita, qualunque cosa faccia.

Quella antipolitica – una retorica oggi certamente pagante sul piano del consenso elettorale – rischia di essere una spirale autodistruttiva per i regimi democratici. Tanto più che ad alimentarla non sono soltanto i movimenti politici di protesta, ma spesso anche coloro che hanno responsabilità di governo. Se la riforma costituzionale viene presentata all’opinione pubblica, da Renzi e dai suoi ministri, come un modo per risparmiare sui costi della politica, svilendone così il significato politico e la complessa architettura giuridica, nulla di strano che il M5S, per pura propaganda, abbia deciso di rilanciare su questo terreno con la proposta di un dimezzamento degli stipendi dei parlamentari.

Ma così si finisce per dare vita ad una rincorsa demagogica a promettere sempre più tagli. Senza rendersi conto che contrarre sempre più i costi della politica produce come effetto, non una maggiore moralità pubblica, tanto meno migliori prestazioni, ma semmai un abbassamento crescente nella qualità delle assemblee rappresentative e del ceto di governo.

Nessuno che abbia una posizione socio-professionale minimamente solida si dedicherà alla politica attiva senza che il suo impegno venga gratificato e riconosciuto anche sul piano economico. Il che significa lasciare libero campo nelle istituzioni agli avventurieri, a coloro che non hanno nulla da perdere (e molto da guadagnare) o alle persone pronte ad obbedire ciecamente in cambio dello scranno che è stato assicurato loro. Diciamo sempre di volere una democrazia efficiente basata sul merito individuale e la competenza, ma la strada che abbiamo imboccato – che dovrebbe portarci alla politica low cost esercitata direttamente dai cittadini per mero spirito di servizio – è decisamente quella sbagliata.

* Articolo apparso su “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 25 ottobre 2016.

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