di Alessandro Campi
L’Alta corte di giustizia di Inghilterra e Galles ha stabilito, accogliendo il ricorso di una cittadina britannica, che il Primo ministro Theresa May non ha il potere costituzionale per avviare – ricorrendo all’articolo 50 del Trattato di Lisbona – il processo di negoziazione che nell’arco di due anni dovrebbe portare, in applicazione del voto referendario dello scorso 23 giugno, alla definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Ue. Questo potere, secondo i giudici, le può essere conferito solo attraverso un voto del Parlamento. Voto che in teoria potrebbe contraddire quello popolare.
C’è poco da sorprendersi se una simile decisione – contro la quale il governo ha già annunciato un ricorso urgente alla Corte suprema – abbia scatenato, non appena resa pubblica, una tempesta di polemiche. Si tratta in effetti di un verdetto che solleva questioni politico-istituzionali assai delicate, che per molti versi vanno al cuore del nostro modo di concepire gli equilibri costituzionali e la divisione dei poteri all’interno di una democrazia.
Il ragionamento che sembra abbiano fatto i giudici è che l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, quello che appunto regolamenta l’eventuale uscita dall’Unione degli Stati membri e che Theresa May si proponeva di attivare a partire dalla fine del marzo 2017, prevede espressamente, al primo comma, che gli Stati possano sì recedere ma “conformemente alle proprie norme costituzionali”. Ora, essendo la Gran Bretagna (dai tempi del Bill of Rights del 1689) una democrazia fondata sulla sovranità parlamentare, ne deriva come conseguenza che tocchi alle due Camere – dei Comuni e dei Lords – il voto finale su un atto politico-legislativo tanto importante.
Trattandosi per di più della revoca di un accordo internazionale, si è ritenuto che l’esecutivo non possa invocare la cosiddetta “royal prerogative”: una procedura costituzionale, ancora vigente in alcune monarchie, che consente al capo del governo di agire senza la preventiva approvazione parlamentare. Al tempo stesso ci si è richiamati al fatto che quello voluto dal premier conservatore Cameron fosse un referendum consultivo: come tale politicamente non vincolante per l’esecutivo. Da qui la scelta di rimettere la decisione finale sulla Brexit alla volontà dei membri di Westimister.
Ma è facile comprendere quanti pericolosi e laceranti contrasti un simile verdetto sia destinato a ingenerare. Per cominciare, quello tra sovranità parlamentare e volontà popolare, o se si vuole tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (un contrasto che nell’Europa di oggi è alla base del successo dei movimenti e partiti populisti). È stato il Parlamento, nel dicembre 2015, a decidere a larga maggioranza, accogliendo la proposta di Cameron, che fossero i cittadini a pronunciarsi, attraverso un referendum, sull’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Unione europea. Può adesso quello stesso Parlamento decidere diversamente da come il popolo sovrano ha deciso? Possono, in altre parole, i rappresentanti del popolo esprimere una volontà contraria, ma politicamente decisiva, rispetto a quella espressa da quest’ultimo, che sarebbe dunque rubricata ad un semplice manifestazione di preferenza?
C’è poi da considerare il rischio di un’alterazione nel rapporto tra i parlamentari e la loro constituency: rapporto che in Gran Bretagna – dove si vota con il maggioritario a turno unico – è molto sentito. Come deve comportarsi, al momento di un eventuale voto in aula, un parlamentare (conservatore o laburista poco importa) che sia personalmente contrario alla Brexit e che però rappresenta un collegio elettorale che ha votato a maggioranza per il “leave”? Per un deputato mettersi contro la volontà maggioritaria dell’elettorato (e del territorio) che rappresenta sarebbe un prevedibile suicidio politico.
C’è infine da richiamare il contrasto, anche questo divenuto sempre più forte nelle democrazie contemporanee, tra i poteri neutrali extra-politici e quelli che invece fondano la propria legittimità sul voto popolare e sul principio di rappresentanza. Le corti di giustizia, nei diversi gradi, sono organismi non soggetti al consenso e dunque politicamente irresponsabili: sino a che punto, con le loro decisioni legali, esse possono incidere sulle dinamiche politico-istituzionali e arrivare ad alterare la volontà popolare?
Naturalmente, non c’è da nascondersi le molte ragioni – per così dire extra-giuridiche – che possono aver spinto i tre membri dell’High Court a sostenere che la Brexit debba essere decisa, nei tempi e nelle modalità, attraverso un passaggio parlamentare. È risaputa la contrarietà del mondo economico-finanziario londinese al risultato del referendum. Decisamente contrari alla Brexit e ben intenzionati a restare all’interno dell’Ue sono, in polemica diretta con Londra, il governo scozzese e quello dell’Irlanda del nord. C’è poi da considerare l’avversione culturale che le élite liberali metropolitane hanno sempre manifestato verso un voto considerato frutto dell’ignoranza e del pregiudizio tipici dei settori della società britannica più arretrati e conservatori.
Aver invocato il potere del Parlamento è stato forse un modo per allungare (e complicare) le procedure di uscita della Brexit, che anche se fosse inevitabile potrebbe però avvenire – secondo gli europeisti britannici – con modalità meno traumatiche di quelle sin qui previste o immaginate: si potrebbe ad esempio pensare di uscire dalla Ue restando tuttavia all’interno del mercato unico comunitario (sul modello della Norvegia). Cosa che permetterebbe di mantenere la legislazione europea in materia di circolazione dei beni, delle persone, dei servizi e dei capitali senza dover condividere le altre politiche comunitarie (dalla giustizia al fisco).
Ma forse la vera speranza di molti settori e ambienti riconducibili all’establishment britannico (certo non sgradita a Bruxelles) è di arrivare a bloccare del tutto la Brexit: indicendo se possibile un nuovo referendum o innescando se necessario una crisi politico-costituzionale che potrebbe portare a elezioni anticipate (e magari ad una nuova maggioranza parlamentare, meno euroscettica dell’attuale). Ma siamo pur sempre in Gran Bretagna, dove la volontà popolare, comunque si manifesti, è al dunque una cosa seria e meritevole di rispetto. I cittadini di Sua Maestà, consultati direttamente, si sono espressi in modo chiaro. E il Parlamento, se mai dovesse toccargli l’ultima parola per decisione dei giudici, non potrà che assecondarne la scelta.
Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 4 novembre 2016
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