Alia K. Nardini

Latrump Biblioteca Sala Borsa a Bologna, la notte delle elezioni, era stracolma. In auditorium non c’era più posto, neppure per terra. Al piano di sopra –quello con il pavimento di vetro, attraverso il quale i vedono gli antichi resti villanoviani, etruschi e romani della città—davanti al maxischermo in collegamento diretto con la CNN, idem. Alle 9.30 già si festeggiava “il cambiamento epocale, il primo presidente donna della nazione più grande del mondo”. Una partecipazione incredibile dall’Università di Bologna, il Comune, tutti i programmi studio americani in città, Istituto Gramsci, studenti, cittadini. L’emozione era palpabile. Le testate nazionali, sentiamo, preparano le prime pagine con la foto di Hillary. “Qui si sta facendo la storia”, commentano alcuni.

Poi sono arrivati i primi exit polls. Il 61% degli americani crede che il paese stia andando nella direzione sbagliata, dicono i numeri. Il 69% prova sentimenti di insoddisfazione verso il governo, e tra questi il 23% prova rabbia. Esatto, rabbia. Sono le 23.30 e questo è il primo campanello d’allarme.

Tra i nostri studenti serpeggiano la preoccupazione e l’incertezza. Rientriamo in Spring Hill, hanno bisogno di serenità e di raccogliere le emozioni. Ci sintonizziamo sulla NBC. I primi risultati riguardano la costa est, dove arrivano i primi spogli delle schede dei battleground states – gli stati che a tutti gli effetti decideranno le elezioni. Florida, Ohio, Georgia, Michigan, North Carolina, Iowa, Pennsylvania, Wisconsin, sono gli stati dove né Clinton a Trump sembrano avere una maggioranza certa. Alcuni tra loro sono swing states –gli stati che cambiano orientamento politico nel susseguirsi degli appuntamenti elettorali, il cui andamento è particolarmente difficile prevedere. In palio nei battlegrounds della costa est ci sono 130 ECV, i voti dei grandi elettori che decreteranno ufficialmente il presidente il 19 dicembre. Trump parte da una quota relativamente sicura di 164 ECV, 40 punti di svantaggio su Clinton. A Hillary basta vincere un paio di grandi battleground (Florida e Pennsylvania, diciamo) per tirare un sospiro di sollievo. Aspettiamo.

Invece, i primi risultati mostrano una maggioranza decisamente a favore di Donald Trump. Non solo in alcuni: in tutti i battlegrounds. Contrariamente ai sondaggi, contrariamente alla storia: tutta la costa est, tutta bible belt, mezza sun belt, sembra aver votato Repubblicano. Certo, per ora si tratta solo di poche migliaia di elettori per stato, intorno all’1-2%. Saranno quasi 129 milioni gli americani che si recheranno alle urne (il 55,6% dei cittadini), quindi la cautela è d’obbligo. Ma alle 3 del mattino, quando Trump ha solidamente la maggioranza degli ECV scrutinati e già stacca Clinton di oltre 40 punti, ci rendiamo conto che le elezioni sono praticamente finite. La Florida, con i suoi 29 grandi elettori, è saldamente in mano a Trump. L’America è interamente rossa, il colore dei Repubblicani, tranne qualche sporadica macchia blu nel nord/nordest, sulla costa ovest, e Colorado e New Mexico. Persino i Repubblicani faticano a crederci. Asciughiamo qualche lacrima tra gli studenti più attivi tra i Democrats.

Intanto il mondo, fuori, è ancora in diniego. O in attesa. In Spring Hill, intanto, cominciamo a parlare di come sarà questa futura Presidenza Trump. Alle 4.30 quasi tutti sono andati a dormire.

Nel corso di questa campagna elettorale, che oramai dura da 16 mesi, ho parlato più volte dell’incapacità del fronte liberal di comprendere realmente il profondo malessere che pervade oggi l’America, al di là di ogni distinzione di genere, razza, censo o religione. È l’autocelebrata superiorità morale, che ha seguitato a ripetere che l’economia va bene, che l’Obamacare funziona, che l’immigrazione è un fenomeno positivo per la nazione, e che l’America è ancora il più grande giocatore sullo scacchiere internazionale, che si è dimostrata cieca alla percezione della maggioranza dei cittadini americani: quei quasi 60 milioni che hanno scelto Donald Trump. A prescindere da qualsiasi giudizio di merito sul 45mo Presidente degli Stati Uniti, non si è voluto vedere un’America ferita, spaccata. La candidatura di Hillary Clinjton non è stata una risposta: anzi, reiterando la narrativa secondo cui “America is already great”, ha acuito il problema.

Ripeto, al di là di ogni giudizio di merito sull’operato di 8 anni di Amministrazione Democratica, il grande fallimento è stato rifiutarsi di riconoscere la diversità, i milioni e milioni di voci che chiedevano risposte ai loro fallimenti, alle loro difficoltà, ai loro sogni infranti. Questi cittadini non sono stati ascoltati, le loro difficoltà sminuite ed accantonate. L’8 novembre, questi cittadini hanno fatto sentire la loro voce per Trump.

Il nostro lavoro, come americanisti (e nel mio caso, come docente a stretto contatto con i giovani statunitensi), incomincia ora. L’America deve restare unita. Proprio perché queste elezioni non sono state combattute, tantomeno vinte, sulla base di proposte politiche concrete, è la risposta immediata che conta. È fondamentale rinsaldare le file, combattere l’ostruzionismo ed aprire al dialogo su entrambe i fronti. Per i Repubblicani, che ora controllano non soltanto il Congresso nella sua interezza (Camera e Senato), ma da gennaio anche l’Amministrazione, dovrà aprirsi un dibattito perché il “nuovo repubblicanesimo” di Donald Trump si confronti con il conservatorismo tradizionalista capitanato dello speaker alla Camera Paul Ryan, producendo un partito non soltanto autorevole, ma compassionevole ed inclusivo, pronto a lavorare con l’opposizione. Anche, soprattutto, quando non sarà necessario farlo. Per i Democratci, è giunta invece l’ora di ascoltare i propri sostenitori, nei loro gruppi più importanti (donne, giovani, latinos, neri): non soltanto guardando a loro come altrettanti bacini elettorali, ma impegnandosi attraverso i fatti e non soltanto le parole per portare un cambiamento tangibile e costruire l’America in cui credono.

Mai come ora, si dovrà procedere uniti: ancora una volta, e pluribus, unum.

 

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