di Alessandro Campi
Con Berlusconi politicamente fuorigioco (la scalata da cui deve guardarsi il Cavaliere non è al momento quella di Salvini al centrodestra ma quella della finanza francese alle sue aziende), tutta l’attenzione è sulla crisi, per certi versi speculare, dei progetti politici che fanno capo a Matteo Renzi e Beppe Grillo. E sui loro tentativi di ripartenza dopo i rovesci che hanno subìto nel giro di pochi giorni.
Il primo ha perso malamente il referendum costituzionale e con esso la guida del governo. Il secondo è sul punto di perdere Roma e con quest’ultima le sue ambizioni di arrivare al comando dell’Italia. Per entrambi, dopo aver sperimentato che la realtà è spesso diversa da come la si rappresenta sul filo della propaganda, sembra giunto il momento di una rigorosa autocritica e di un connesso cambio di strategia. Ma da quel che si è sentito negli ultimi due giorni siamo ancora all’inizio di un simile cammino.
Intervenendo ieri all’assemblea nazionale del suo partito, Renzi ha provato a spiegare, senza autogiustificazioni, la ragione principale per cui il “No” ha trionfato alle urne: la poca attenzione prestata ai problemi reali degli italiani. Ha anche riconosciuto di aver agito – soprattutto come segretario del partito – in maniera troppo solitaria, annunciando per il futuro un passaggio dall’Io al Noi, una maggiore disponibilità all’ascolto e toni meno aggressivi.
Ma al netto di queste importanti ammissioni non si è ben capito quali correzioni Renzi ritenga necessarie al suo programma/progetto politico. Delle sue molte promesse e delle sue scelte al governo quale, secondo lui, non ha convinto gli italiani e, in particolare, quei gruppi sociali, a partire dai giovani, che all’inizio del suo cammino più lo avevano sostenuto?
Nemmeno si è compreso come Renzi pensi di ricucire le lacerazioni esistenti nel Pd. Se l’ipotesi di un congresso anticipato è stata ieri accantonata, la possibilità di una scissione – a giudicare da certi interventi degli esponenti della minoranza – appare tutt’altra che scongiurata. Così come appare soltanto rimandata – dai discorsi fatti da alcuni rappresentanti della maggioranza – la resa dei conti più volte ventilata dallo stesso Renzi. Che certo non può sperare di ricompattare il partito solo con la proposta del Mattarellum come nuova legge elettorale.
Insomma, non è ancora chiaro cosa quest’ultimo abbia realmente in testa per riconquistare quei pezzi di elettorato progressista che hanno smesso di credere nella sua retorica tutta ottimismo e volontà. E niente si è sentito sulla sua vecchia idea di dare la caccia, da posizione di sinistra riformista, anche al voto moderato e centrista. Addio per sempre “partito della nazione”?
Ancira più confusa è la situazione all’interno del M5S. La grave crisi romana – risoltasi momentaneamente con il commissariamento politico del sindaco Virginia Raggi imposto da Davide Casaleggio – ha fatto riemergere i problemi strutturali che sono propri del movimento sin dalla sua nascita e che la continua crescita nei consensi ha sin qui fatto ritenere superabili e di poco conto.
Ci si riferisce in particolare all’adozione di criteri di selezione del personale politico che non ne garantiscono, come il caso della Capitale ha plasticamente messo in luce, la competenza sul piano gestionale-amministrativo e la impermeabilità al malaffare. All’esistenza, dietro l’unanimità di facciata garantita dalla leadership carismatica di Grillo, di correnti e gruppi di potere in lotta sorda tra di loro. Al permanere infine di processi decisionali interni avvolti da un alone di ambiguità e tutt’altro che trasparenti.
Quest’ultimo è forse l’aspetto più delicato. Per anni, commentatori e analisti non hanno concesso nulla (giustamente) al partito-azienda di Berlusconi. Perché oggi si dovrebbero chiudere gli occhi sul movimento-azienda di Casaleggio-Grillo? Basta richiamarsi alla volontà sovrana dei singoli cittadini (o militanti) per rispettarla davvero e garantirla dalle manipolazioni? Assai discutibile è poi il doppio registro morale che ormai caratterizza il M5S: da sempre giustizialista e implacabile con gli avversari tutti potenzialmente corrotti, ma divenuto improvvisamente garantista e accomodante con i propri esponenti alle prese con i rigori della legge. Ci si può limitare a riconoscerne l’ingenuità o il fatto di essersi fidati delle persone sbagliate? Nei grillini, il vittimismo autoassolutorio rischia di diventare l’altra faccia della visione cospiratoria della politica che alimenta da sempre la loro propaganda. A questo grumo di contraddizioni – se davvero si aspira ad essere forza di governo nazionale – è chiaro che si dovrà porre rimedio, a meno di non volersi condannare ad un ruolo di perenne, chiassosa e inutile opposizione.
Il problema è che renzismo e grillismo rappresentano, piacciano o meno, le uniche novità emerse sulla scena pubblica italiana dopo il tramonto del berlusconismo, la parentesi (assai infelice) dei tecnici e la consunzione irreversibile di tutte le tradizionali famiglie ideologiche. Si tratta di due visioni per molti versi divergenti della democrazia, della partecipazione politica, delle istituzioni e del governo della cosa pubblica, ma animate entrambe da una radicale ansia di rinnovamento. Proprio per questo hanno attirato, in relativamente poco tempo, così vasti consensi. Che rischiano ora di perdere se non riusciranno a trarre le giuste lezioni dalle difficoltà e contraddizioni nelle quali attualmente si dibattono. Potrebbe sembrare un problema di singoli partiti. In realtà è un problema del sistema politico italiano. Dovessero fallire o dimostrarsi non all’altezza anche questi tentativi di “cambiare verso” all’Italia sappiamo già cosa ci aspetta: il caos che favorisce gli avventurieri travestiti da moralizzatori e salvatori della patria o la palude nella quale prosperano i politicanti navigati e gli affaristi senza scrupoli.
* Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 19 dicembre 2016.
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