di Ernesto Galli della Loggia*
Prendo la parola con piacere in questa occasione che ricorre ogni anno, ma ogni anno conserva l’importanza che ha.
Permettetemi di cominciare con una domanda in un certo senso fin troppo ovvia, ma alla fin fine inevitabile in una giornata come questa. E cioè: qual è oggi la presenza della Shoah, dell’antisemitismo omicida, sulla scena europea? Quali caratteristiche assume oggi l’odio verso gli ebrei e secondo quali modalità quest’odio si trasforma in gesto di aggressione e di violenza, in gesti di morte?
A ogni apparenza, l’antisemitismo – sia dal punto di vista ideologico e teorico, per così dire “di principio”, sia dal punto di vista pratico – conosce oggi in tutta Europa un’impennata. Direi che negli ultimi tempi non è passata forse settimana che non abbia fatto registrare in vari Paesi (soprattutto in Francia) episodi sanguinosi di attacco a cittadini di religione ebraica o a istituzioni ebraiche da parte quasi sempre (o forse si potrebbe dire sempre) dell’islamismo radicale o del terrorismo islamico. Negli ultimi anni si contano a decine e decine episodi di questo genere: episodi di sangue, di feriti e di morti.
Quando si parla di terrorismo islamico e di islamismo radicale non bisogna peraltro dimenticare che molto più numerose sono comunque le sue vittime islamiche: davvero praticamente non passa giorno o quasi che in qualche luogo del Medio Oriente o dell’Africa, in un mercato, in un ufficio, in un albergo o in luoghi di culto, in una chiesa o in una moschea, non vi siano attentati sanguinosissimi. Questi episodi sono continui, e sempre con decine e decine di vittime.
L’islamismo radicale dunque ha anche l’aspetto – almeno ai nostri occhi europei – di una sorta di guerra civile che oggi si svolge all’interno del mondo islamico; di una sanguinosa lacerazione religiosa e politica di questo mondo. Devo dire la verità – esprimo, è ovvio, in questa relazione, un punto di vista del tutto personale: siamo ancora in attesa che da questo mondo islamico, soprattutto dalle sue massime istanze religiose, si alzi una voce alta e forte per condannare questo tipo di violenza omicida così disperatamente aggressiva. Una voce alta e forte che però, mi pare, finora non è giunta.
C’è anche un’altra forma non meno grave che oggi assume l’islamismo radicale, in questo caso forte di un vasto stuolo di fiancheggiatori. È la forma del boicottaggio nei confronti di Israele che mira a una sua sostanziale delegittimazione. Che cerca – spesso con l’aiuto vergognoso degli ambienti accademici che si dicono progressisti e di alcune grandi organizzazioni internazionali – di mettere al bando dal mondo civile lo Stato ebraico. È quanto mai significativo, come ho appena detto, che quest’azione di boicottaggio riscuota grande successo specialmente negli ambienti della cultura, negli ambienti universitari – in modo tutto particolare in quelli anglosassoni. Ed è certamente paradossale che una tale azione di boicottaggio, insistente e capillare, avvenga proprio in un mondo come quello della cultura in cui negli ultimi due secoli gli ebrei hanno dato un contributo così decisivo, hanno apportato una tale quantità di conoscenza e di espressioni artistiche. Ma nulla sembra essere servito, ahimè, a mettere al riparo l’ebraismo e lo Stato di Israele. La cui politica naturalmente – c’è quasi da vergognarsi a doverlo ripetere ogni volta, ma è pur sempre necessario per evitare il benché minimo equivoco – si presta ad essere criticata come tutte le politiche di tutti gli Stati. Sicché io stesso, per fare un esempio che vale quello che vale, sono critico verso la politica israeliana degli insediamenti nei territori occupati nonché verso la politica condotta nei riguardi del mondo e delle istituzioni cattoliche presenti in Israele: una politica che mi sembra ispirata spesso da uno spirito di rivalsa che non può portare alcun frutto. Ma tali critiche, si capisce, nulla hanno a che fare con il nostro dovere di fronte al boicottaggio di cui parlavo prima, di alzare, una voce alta e forte che gridi: “anche questo è antisemitismo! ogni azione che mira a delegittimare lo Stato di Israele è antisemitismo!” Tra l’altro con aspetti anche ridicoli, come dirò.
È un antisemitismo che si può definire come l’antisemitismo del politically correct. A questo proposito permettetemi di citare un episodio abbastanza divertente che mi è capitato di leggere sull’ultimo numero del periodico della comunità ebraica di Torino, «Ha Kehillah». Si tratta di questo: un gruppo di studenti riunito intorno a una professoressa ha letto vari libri di Amos Oz, il notissimo romanziere israeliano; e naturalmente in questi libri si parla di usi e abitudini ebraiche. È sorta allora la curiosità, da parte di questo gruppo di lettori, di saperne di più di queste consuetudini ebraiche e della società israeliana in generale. La loro docente ha quindi invitato alcuni esponenti della comunità ebraica di Torino – almeno così credo, non è specificato dal giornale – per parlare di alcuni aspetti della vita e della cultura ebraiche. Ha dovuto però rinunciare all’iniziativa perché immediatamente qualcuno ha fatto presente che, se si invitavano gli esponenti della comunità ebraica, occorreva allora invitare anche gli esponenti di quella palestinese; a parlare, si badi bene, non della politica di Israele (il che avrebbe potuto avere un qualche senso), ma, bisogna presumere, a dire la loro circa i costumi ebraici! E dal momento che la difficoltà e immagino anche l’assurdità della cosa sono apparse insormontabili, la conclusione è stata che non se ne è fatto più nulla. Si tratta di un episodio paradossale, e tuttavia emblematico di questa forma di finta equidistanza, di finta neutralità, che richiede sempre e comunque di ascoltare anche l’opinione dell’altra parte. Per fortuna – mi viene da dire – in questa sala parla soltanto la nostra voce!
Ma se penso a quale presenza ha la persecuzione antisemita nell’ambito della vita dell’Europa odierna, allora occorre chiarire che ci sono anche molte differenze rispetto all’evento terribile che si ricorda in questa giornata. Oggi, infatti, gli ebrei non sono certamente, in Europa, una minoranza perseguitata. Ma questo è dovuto anche al fatto che l’islamismo radicale e il terrorismo islamista considerano cristiani ed ebrei indifferentemente come loro nemici, e non si fanno molto scrupolo di distinguere tra gli uni e gli altri. In questo modo, paradossalmente, l’islamismo radicale ha l’effetto di produrre per così dire un amalgama oggettivo, potrebbe dirsi quasi un’alleanza di fatto, tra ebrei e cristiani. Non c’è cosa più forte del sangue versato insieme, infatti, per cementare dei legami fortissimi. Inutile osservare che si tratta di un’alleanza tra posizioni che storicamente, viceversa, sono state sempre (almeno fino alla Shoah), di antagonismo e di contrasto talora fortissimo. In tal modo, di conseguenza, le azioni omicide compiute in questi anni dall’islamismo radicale nel nostro continente sortiscono un ulteriore effetto di grande portata. E cioè l’effetto di accreditare del tutto quella categoria di radici ebraico-cristiane che risale soltanto agli ultimi decenni, essendo un frutto proprio della riflessione sulla Shoah e peraltro essendo rimasta confinata finora a un uso sostanzialmente colto e anche non poco discusso. Il concetto di radici ebraico-crsitiane, di un legame storico (non già solo teologico) inestricabile tra giudaismo e cristianesimo si è trovato straordinariamente rafforzato nel momento in cui dalla dimensione astratta e ideale si è passati alla dimensione molto concreta dell’essere insieme obiettivi di sanguinose azioni di guerra.
In questo senso particolare – e ben consapevole del peso delle parole che sto per pronunciare – si potrebbe davvero dire che con quanto sta accadendo in Europa la Shoah è finita. E si potrebbe aggiungere che non è affatto vero che Dio sarebbe morto ad Auschwitz, come ha sostenuto qualcuno: lo hanno simbolicamente tenuto in vita alcune donne di origine ebraica ma convertite al cristianesimo, con ciò segno potente esse stesse dell’unione dei due monoteismi di cui ho appena detto. Mi riferisco per esempio a nomi come quello di Simone Weil, di Etty Hillesum, pensatrici tra le più importanti del Novecento.
Se comunque si può dire in qualche modo che la Shoah è finita, allora il ragionamento può fare un passo ulteriore, per avventurarsi su un terreno più squisitamente storico-politico. Cerco di spiegare in che senso: la sostanziale eclissi storica dell’Europa negli ultimi sessant’anni, la sua ritirata dalla storia (fatta salva l’Inghilterra che anche in questo si dimostra un Paese europeo a metà), l’impossibilità da parte dell’Europa stessa di costituirsi come soggetto politico, tutto ciò è a mio giudizio derivato da una sorta di terribile rimorso in qualche modo collegato alla Shoah. Collegato al terribile problema che l’Europa ha avuto in relazione alla dimensione della violenza, della guerra. Dal ’45 ad oggi, insomma, l’impiego della forza (elemento irrinunciabile di qualunque politica estera) si è trovato ad essere sostanzialmente vietato dal terribile tabù rappresentato dall’effettiva complicità dell’intera Europa nella Shoah. Dalla consapevolezza che i popoli europei hanno avuto di una tale complicità a dispetto di tutte le mitologie circa le grandi alleanze antifasciste; dalla consapevolezza che nel 1940 gran parte dell’Europa era dominata dalla svastica o, nel suo misero piccolo, dal fascio littorio; e che di fatto tutte le classi dirigenti europee avevano aderito a un progetto antisemita più o meno forte, più o meno radicale, più o meno sanguinario. Si è in tal modo depositato inconsapevolemente nello spirito pubblico del continente come un terribile fondo di rimorso nei confronti del passato, all’origine della convinzione che con la violenza, con la guerra, non bisognava e non si poteva più avere a che fare, così rinunciando di fatto a una dimensione fondamentale della politica.
Forse però – questo forse vorrei naturalmente sottolinearlo dieci volte – la situazione storica nuova che si sta oggi disegnando sotto i nostri occhi, con questo amalgama ebraico-cristiano prodotto dal terrorismo islamista, e quindi con la “fine ideologica” della Shoah, forse tutto ciò è sul punto di produrre un superamento del tabù di cui ho finora detto. Oggi, forse, sotto l’incalzare degli eventi, si sta per aprire la possibilità di un ritorno dell’Europa alla storia. Tutto questo sta accadendo per vie che non sappiamo ancora scorgere con chiarezza e che sono le più varie; vie che sono determinate a volte anche dagli impulsi pericolosi delle opinioni pubbliche, dalla reazione agli eventi in cui siamo immersi e da cui siamo così violentemente colpiti.
Prima di terminare vorrei però trovare il modo, se me lo permettete, di rivolgere un invito: nelle società europee come le nostre, che si trovano a fronteggiare i formidabili problemi prodotti da un’immigrazione con le caratteristiche di un fenomeno storico senza precedenti – vuoi per le proporzioni quantitative vuoi soprattutto per la sua natura –, gli uomini della politica la smettano di invitarci ai buoni sentimenti, alla tolleranza, ad essere comprensivi, a non essere xenofobi! Non è questo a mio avviso il loro compito. Il loro compito è quello di trovare soluzioni politiche ai problemi. Le esortazioni, le buone parole non fanno parte, se non limitatamente e in via accessoria, dei loro compiti. Perché solo così, con le soluzioni politiche, si affrontano i fenomeni che abbiamo di fronte, non con le buone parole. In questo campo come forse in nessun altro vale il detto che le chiacchiere stanno a zero.
La guerra, l’uso della forza, l’abbandono del tabù: si tratta di macigni morali, che aprono dentro di noi una quantità enorme di problemi, dobbiamo esserne consapevoli. Resta indubitabilmente vero, tuttavia, che in un momento cruciale, in una contingenza estrema, l’unico modo per difendere le buone ragioni può essere l’impiego della forza. È questa una lezione della storia che può piacere o no ma è indubitabile: in un modo o nell’altro la realtà finisce per imporsi: anche sui buoni sentimenti, e specialmente quando si tratta di difendere delle buone ragioni. E le nostre, ne sono convinto, sono delle buone ragioni.
© Rivista di Politica – Diritti Riservati
Articolo apparso sul n. 4/2016 della “Rivista di Politica”, pp. 9-12.
* Questo testo è la trascrizione, rivista e integrata dall’Autore, dell’intervento pronunciato nel corso di una tavola rotonda sul tema Antisemitismo, paura del diverso, incitamento all’odio: ieri e oggi svoltasi a Roma il 21 gennaio 2016 presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed organizzata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Galli della Loggia avanza una tesi radicale: la fine “ideologica” e politico-simbolica della Shoah sotto l’incalzare del terrorismo islamico, che colpendo indiscriminatamente cristiani ed ebrei sta creando tra di essi un’alleanza oggettiva e di fatto. Il sentirsi esposti ad una comune minaccia starebbe altresì contribuendo alla rimozione delle ferite e dei sensi di colpa prodottisi nella coscienza storica europea a causa delle persecuzioni di massa cui furono sottoposti gli ebrei negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, culminate nelle deportazioni nei campi di concentramento e nel genocidio di milioni di uomini e donne. La ritirata dalla storia e dalla politica dell’Europa, per tutto il secondo dopoguerra, è stata in gran parte la conseguenza di tali sensi di colpa. Una situazione destinata a cambiare proprio a causa dell’accelerazione storica prodotta dal terrorismo fondamentalista. Si tratta per l’appunto di una tesi estrema e per certi versi paradossale, rimasta confinata nell’ambito dell’appuntamento all’interno del quale è stata enunciata. Nella prospettiva delle iniziative che anche nel 2017 scandiranno la Giornata della Memoria ci è parso utile e interessante renderla fruibile, in forma scritta, ad un più vasto pubblico di lettori, affinché possa diventare – come essa certamente merita – oggetto di discussione e approfondimento.
Lascia un commento