di Giovanni G. Balestrieri

marx_engels_lenin_stalin_ba10Che cosa resta oggi di Marx? A volere essere tranchant, si potrebbe rispondere con il titolo del giustamente fortunato romanzo di Enzo Striano: Il resto di niente. Se non ci si vuole limitare ad occuparsi di Marx esclusivamente come un momento della storia del pensiero contemporaneo, ma lo si vuole considerare per il contributo che le sue teorie ancora recherebbero alla comprensione della dinamica delle forze che muovono la società, non si vede quale altra risposta si possa dare se non appunto questa. Nemmeno una delle molte previsioni da lui formulate sulla base di quella che egli spacciava con grande sicumera, fustigando quanti osavano contraddirlo con le «armi della critica» in attesa di poter dar loro il colpo di grazia con la «critica delle armi», per una concezione scientifica della storia si è avverata. Il quasi secolo e mezzo passato dalla sua morte ha infatti emesso una sentenza senza possibilità di appello al riguardo. Non si è assistito ad alcuna polarizzazione della sociètà in due sole classi – una estremamente esigua di ricchi capitalisti e l’altra numerosissima di poveri proletari – in feroce lotta fra di loro, lotta che si sarebbe dovuto concludere con l’annichilente vittoria dei secondi sui primi.

Tutt’altro è invece accaduto. Nel corso del ‘900, lo sviluppo della società è andata in direzione opposta a quella pronosticata da Marx, cioè verso una sempre maggiore articolazione e moltiplicazione dei soggetti e delle figure sociali non solo impreviste dalla sua teoria, ma anche incomprensibili alla sua luce. Nessuna rivoluzione socialista si è avuta laddove si sarebbe dovuta avere, ovvero nei paesi capitalisticamente avanzati, per l’azione rivoluzionaria del proletariato. La rivoluzione si è avuta invece dove non ci sarebbe dovuta essere e, dunque, dove non era stata prevista dalla teoria, vale a dire nei paesi che erano ancora profondamente arretrati economicamente. E dove si è realizzato, il socialismo non ha dato vita al regno della libertà, come aveva promesso di fare, ma a quello del terrore e dell’oppressione più spietata e brutale. Né il socialismo è riuscito in alcun caso a sviluppare le forze di produzione a quei livelli inaccessibili al capitalismo come aveva detto che avrebbe fatto, consentendo che gli uomini ricevessero ciascuno secondo i loro bisogni. Piuttosto, dal socialismo realizzato le forze di produzione sono state avvilite e mortificate sotto il peso di un centralismo burocratico inefficiente e asfissiante che ha generato solo miseria. E, alla fine, il socialismo che doveva seppellire il capitalismo è stato invece seppellito dal capitalismo; e dove a questo non si è giunti, è stato solo perché si è stati accorti e previdenti. Una volta intuito con chiarezza il baratro in cui si stava precipitando, gli stessi promotori del socialismo, per non essere travolti, hanno giocato d’anticipo e, non attendendo l’implosione del sistema, si sono riconvertiti in tutta fretta, come alla loro unica ancora di salvezza, al capitalismo. Proprio di recente, abbiamo assistito a qualcosa di inimmaginabile e paradossale: il presidente di quella che una volta era ritenuta la seconda patria del socialismo, la Cina, ha lanciato un accalorato appello a non abbandonare il libero scambio, perché solo grazie ad esso è possibile mantenere il benessere, per chi ce l’ha, e acquisirlo, per chi non ce l’ha ancora. Dall’alto della sua esperienza diretta della verità effettuale del socialismo, egli ci ha messo in guardia dal abbandonare il capitalismo per avventurarci in sentieri senza prospettive.

Eppure, benché non ne abbia imbroccata una che sia una, da qualche anno a questa parte è in atto un ritorno a Marx. Di nuovo, si torna a sentire dire in giro che Marx sarebbe l’unico faro intellettuale capace di illuminare il nostro cammino in questa landa desolata e mesta nella quale ci avrebbe gettato il capitalismo. Vero è che, a parte qualche new entry, si tratta per lo più di vecchi adepti del verbo che, dopo la botta presa col crollo del muro per antonomasia, hanno recuperato la fede che aveva vacillato e, con rinnovato ardore, hanno ripreso l’opera di proselitismo che avevano momentaneamente sospeso. Nondimeno non si può non rimanere stupefatti davanti a un cotale risorgimento marxiano, dinanzi al quale la stessa araba fenice avrebbe qualcosa da imparare, per non fare altri riferimenti che saprebbero di blasfemia. Ma, come aveva già capito Popper, fatti e ragione non possono nulla contro la fede, la quale è impermeabile a ogni tentativo di falsificazione.

Tra gli scritti più recenti che s’inseriscono in questo revival, va senz’altro compreso anche l’agile volumetto di Giuseppe Vacca, Quel che resta di Marx. Rileggendo il “Manifesto” dei comunisti, (Salerno, Roma 2016, pp. 99, € 8,90). Curiosamente però, nonostante le buone intenzioni – nei riguardi di Marx naturalmente – che lo hanno ispirato, il libro di Vacca sortisce un effetto contrario a quello voluto. Ed anziché portare acqua al mulino marxiano, gliela toglie, lasciandolo completamente all’asciutto. Si dirà che la causa era disperata perché il paziente era in uno stato pietoso quando è arrivato in sala operatoria. Sarà anche così – e noi pensiamo, e lo si sarà capito, che sia così – però indubbiamente Vacca ci mette anche molto del suo per far passare ogni voglia di riprendere in mano le opere di Marx per la goffaggine e la confusione della sua argomentazione.

Si stia bene attenti a quello che riesce a dire di Marx nel giro di sole poche righe. Nelle battute iniziali del volumetto, Vacca innalza il filosofo di Treviri al di sopra di ogni altro pensatore moderno, per avere saputo concentrare nel proprio pensiero tutto il meglio che la cultura e la civiltà degli ultimi secoli hanno prodotto. Con il trasporto dell’innamorato/a che non ha occhi che per la sua bella/o – omaggio al politicamente corretto – Vacca dichiara che Marx è la «sintesi e critica del pensiero moderno», di «quello germinato dalla Riforma protestante, dall’Illuminismo, dagli sviluppi dell’economia politica e della “filosofia classica tedesca”» (p. 13). E, proprio perché è stato cotale genio universale, l’«emarginazione del pensiero di Marx» a cui si è assistito negli ultimi tempo non poteva che avere conseguenze intellettuali devastanti. A cos’altro mai è da imputarsi «la carenza di ricostruzioni soddisfacenti della storia mondiale» (p. 11) contemporanea se non all’ostinazione con cui ci si è rifiutati di avvalersi degli strumenti analitici da lui escogitati?

Il fatto è però che questa iperbolica, e improbabile va aggiunto, esaltazione di Marx segue immediatamente una Premessa nella quale Vacca, forse per distrazione, si era lasciato andare a ben altro giudizio, un giudizio in cui si dice che Marx fu un «(presunto) economista», meglio: che non fu affatto «un economista, ma un pensatore non classificabile fra le discipline morali moderne perché dedicò le sue energie intellettuali a elaborare un pensiero che potesse orientare l’azione di determinati “movimenti collettivi”» ( pp. 9-10) Ora, se le parole hanno un senso, questo significa che Marx fu in sostanza niente più che un propagandista, un agitatore, un ideologo insomma che aveva una causa politica da far trionfare, quella del proletariato, in vista della quale orientò tutta la sua vita e che, quindi, le sue teorizzazioni economiche non vanno prese sul serio, poiché non sono scienza, essendo mero strumento di battaglia politica il cui pregio sta nel tenere animati e combattivi i militanti, coll’indurli a credere di stare dalla parte giusta della storia. Non c’è da rimanere allibiti? Sì, c’è proprio da rimanere allibiti. Come è possibile che Vacca non si sia avveduto che la stessa persona non poteva essere stata, nella medesima vita, la «sintesi e critica del pensiero moderno» e un agitatore politico sordo ad istanza del pensiero teorico. Già, perché se uno è stato un agitatore politico che aveva come unico scopo di liberare dalle catene il proletariato, non può essere stato anche la «sintesi e critica del pensiero moderno». Le due cose, dovrebbe essere ovvio, si escludono. Ma soprattutto la seconda destituisce di credibilità la pretesa di fare di Marx il pensatore cui richiamarsi per giungere finalmente ad avere «ricostruzioni soddisfacenti della storia mondiale» odierna. Quali «ricostruzioni soddisfacenti» infatti possono mai venire da un ideologo?

Ma, in verità, dietro la demolizione – inintenzionale c’è da pensare – di Vacca del Marx economista c’è del metodo. O, almeno, così Vacca crede, e vorrebbe farci credere. Sgombrare il campo dal Marx economista è infatti per lui propedeutico al fine di far emergere quello che sarebbe in realtà il vero Marx, quello che avrebbe ancora molto, anzi, moltissimo da dirci, quello dal quale ancora dobbiamo prendere a piene mani per le suddette «ricostruzioni soddisfacenti», ovvero il Marx politico. È il Manifesto, non il Capitale, che dobbiamo assumere come la nostra Bibbia, il libro che dobbiamo tenere sul comodino e da cui attingere ogni sera, prima di chiudere gli occhi, qualche versetto di sapienza autentica. E per quale ragione? Per la teorizzazione della democrazia rappresentativa che vi si troverebbe. Questo e nessun altro è per Vacca il programma che Marx delinea nel Manifesto, il quale non è che il «programma dei Cartisti: Stato di diritto, parlamentarismo e suffragio universale», perché «non ci possono essere dubbi che la democrazia fosse per Marx la democrazia rappresentativa» (p. 19). Diavolo di un Vacca! Ma così lo hai definitivamente liquidato, gli hai assestato il colpo finale, perché se prima gli hai negato la patente di economista, ora gli hai tolto anche ogni originalità come pensatore politico! E, infatti, se il suo programma politico è quello dei Cartisti, Marx non fu allora che un imitatore, altro che genio universale in cui tutta la cultura moderna si trova fusa! E se così è, per qual motivo mai dovremmo attingere dalla copia piuttosto che dall’originale? Non è meglio abbeverarsi direttamente  alla fonte, cioè ai Cartisti, che non al loro postumo imitatore, cioè a Marx?

Povero Marx, ci viene da dire a noi che non certo simpatizziamo per te, se questi sono i tuoi odierni discepoli, c’è da scommettere che dal tuo sepolcro non farai in tempo a sollevarti in piedi che vi riprecipiterai dentro per non uscirne più.

 

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