di Luca Marfé

Kim-486685NEW YORK – Nel corso degli ultimi giorni Donald Trump e la sua amministrazione hanno mostrato i muscoli di un’America dal volto assai diverso rispetto a quella del predecessore Barack Obama. E quanto accaduto in Siria, con la pioggia di missili Tomahawk sulla base aerea dalla quale erano partiti i mezzi accusati di aver utilizzato armi chimiche sui civili, rischia in qualche modo di ripetersi sull’ancor più spinoso fronte orientale: quello della Corea del Nord.

C’è tuttavia un “però” colossale: la Corea del Nord non è la Siria.

La forte struttura verticistica partitico-militare ed i consistenti armamenti (collegati peraltro al continuo perfezionamento del programma nucleare e missilistico) combinati con la granitica solidità del regime pongono infatti Pyongyang e dintorni su un piano completamente diverso rispetto a Damasco.

Un’azione militare statunitense a danno di Kim Jong-un, sulla scia di quella effettuata sul fronte mediorientale di Khan Shaykhun, è quindi assai poco auspicabile. A maggior ragione se si considerano gli altissimi costi di un’eventuale escalation che coinvolgerebbe in primis la numerosa comunità americana residente nell’altra Corea, quella all’ombra di Seul (28.500 sono i soldati statunitensi di stanza nelle basi sudcoreane).

L’interlocutore privilegiato di Pyongyang è senz’altro la Cina. Ma, al di là delle relazioni economico-commerciali, si può essere davvero così certi che Xi Jinping e i suoi possano influenzare le scelte di Kim Jong-un?

Nonostante il legame frutto della storica alleanza figlia della guerra di Corea, le maglie di questa amicizia si sono allentate e di parecchio nel corso degli anni. È evidente che il sistema politico ed economico cinese, dagli anni ‘50 ad oggi, ha cambiato natura, mentre quello nordcoreano è rimasto in buona sostanza immutato.

I continui test nucleari e missilistici del vicino del nord, inoltre, stanno mettendo in forte imbarazzo il governo cinese che nel frattempo ha stabilito relazioni politiche ed economiche molto strette con tutti gli altri attori regionali, inclusi Corea del Sud, Giappone e gli stessi Stati Uniti. Tale imbarazzo, unito alle recenti strette sanzionatorie internazionali e alle ultime pressioni del tycoon, ha probabilmente condizionato la decisione di Pechino di sospendere alcune transazioni commerciali con Pyongyang, tra cui le importazioni di carbone.

Resta da chiedersi come venga percepito il ciclone Trump a quelle latitudini.

La nuova Casa Bianca, non differentemente da quella degli 8 anni firmati Obama, continua a mantenere una salda alleanza militare con la Corea del Sud. A riprova di tale legame si possono citare l’imminente visita del vicepresidente Pence, prevista a Seul dal 16 al 18 aprile, che fa seguito a quelle del segretario alla Difesa Mattis, del segretario di Stato Tillerson e del capo negoziatore americano per i “Six-Party Talks”, Joseph Yun, nonché la conversazione telefonica avvenuta a fine vertice tra il presidente Trump e l’acting-president sudcoreano Hwang Kyo-ahn.

Le autorità di Seul, dal canto loro, continuano a escludere la possibilità che venga scelta l’opzione militare e che gli Stati Uniti agiscano unilateralmente.

O almeno se lo augurano.

 

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