di Maurizio Griffo
Un argomento costante, quasi un topos retorico, cui i commentatori politici ricorrono quando si occupano della Lega, è la contrapposizione tra l’attuale leadership a quella precedente. Al federalismo di Bossi si contrapporrebbe il nazionalismo di Salvini, alla capacità di mediazione del primo farebbe riscontro l’intransigenza del secondo. E, non v’è dubbio, che un simile approccio contenga un elemento di verità. Negli ultimi anni la Lega ha modificato a trecentosessanta gradi il proprio programma, cambiando completamente pelle. Non più un aggressivo sindacato territoriale che mette corporativamente all’ordine del giorno la questione settentrionale, bensì un partito che sposa la linea antieuropea in chiave di difesa nazionale. Questa analisi però, per quanto colga un aspetto vero, e anzi fin troppo evidente, trascura i fortissimi elementi di continuità che pure esistono. Aspetti che vanno invece considerati se, al di là delle formule politiche, si vuole davvero capire la natura del movimento leghista.
Per intenderla compiutamente è forse utile far riferimento al retroterra storico. La Lega non è un partito recente che nasce negli novanta del Novecento, ma ha radici più antiche, perché origina come una federazione di vari gruppi autonomisti e federalisti di più risalente formazione. Gruppi del tutto marginali ma, proprio per questo, assai caratterizzati in senso identitario. Da questa origine settaria e semiclandestina, la Lega ritrae una precisa caratteristica, i suoi componenti sono tenaci assertori della ragione di partito rispetto ad ogni altra considerazione. Certo, questo aspetto è presente in ogni forza politica, anzi in ogni organizzazione (quella che si denomina la persistenza degli aggregati). Nella Lega, però, tale carattere è del tutto predominante.
Questa attitudine, che si può definire sinteticamente come settaria, non si è edulcorata per nulla quando il partito si è trovato d’improvviso al centro della scena pubblica e poi è stato catapultato, grazie all’alleanza promossa da Berlusconi, al governo del paese. Al contrario, il settarismo si è accentuato. All’interno della coalizione di centro destra la Lega ha sempre messo il massimo impegno non solo a caratterizzare e distinguere la propria posizione, ma ad agire come un partito non vincolato dagli impegni assunti con le altre componenti della coalizione.
Nel 1994, quando ha temuto che Forza Italia potesse prosciugare il suo bacino elettorale di riferimento, la Lega non ha esitato a far cadere il governo. Oltre un decennio dopo, quando si è provato a dare vita ad un partito unico del centro destra, non solo si è sdegnosamente rifiutata di confluire nella nuova formazione, ma ha accentuato oltre misura i toni identitari. Infine, nell’estate del 2011, quando l’Unione europea ha richiamato il governo italiano a un’azione riformatrice, la Lega ha posto il veto a qualunque provvedimento efficace. In quelle settimane drammatiche, incuranti del crescente spread tra i titoli di stato italiano e quelli tedeschi, i ministri leghisti erano impegnati strenuamente in una surreale manovra diversiva: l’agitazione per l’apertura dei “ministeri a Monza”. Riguardati nell’insieme gli anni di governo del centro destra si possono leggere come il tentativo, sempre infruttuoso, di costituzionalizzare la Lega. In altri termini, il partito che fu di Bossi, ed è di Salvini, pur avendo a lungo condiviso un’esperienza di governo, ha sempre mantenuto il proprio carattere di forza antisistema.
Rispetto a questa continuità strutturale, di setta identitaria, di ceto politico teso a perpetuare la propria esistenza, i rovesciamenti programmatici investono un aspetto del tutto secondario. Quello che conta non è la coerenza degli intenti o la congruità delle proposte, bensì la raccolta del consenso a qualunque costo. Così era durante la gestione di Bossi così è ancora adesso con la gestione di Salvini. Nulla di davvero importante è cambiato.
* Articolo già apparso su “Mente Politica”
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