di Alessandro Campi
Si era scelta Taormina come sede del G7 italiano non solo per la sua bellezza e la sua fama mondiale come località turistica. Ma perché da quel suggestivo angolo di Sicilia – peraltro di un’evidente scomodità dal punto di vista logistico e della sicurezza – ci si proietta naturalmente verso il Mediterraneo e dunque verso le coste africane. Se uno degli obiettivi sbandierati di questo summit, soprattutto dal punto di vista dell’Italia, era trovare soluzioni comuni su come gestire in una chiave globale il fenomeno dell’immigrazione, non poteva esserci fallimento più grande. Politico e al tempo stesso simbolico, proprio in virtù della località dove i “Grandi della Terra” – come si continua a ripetere con una formula inutilmente enfatica e al dunque nemmeno veritiera – si sono riuniti per due giorni.
Lo ha detto del resto, con parole poco o punto diplomatiche, Angela Merkel alla fine dei due giorni d’incontri avendo persino rinunciato al rituale della conferenza stampa: è stato un G7 “molto insoddisfacente”. Nel suo caso si riferiva soprattutto al tema – da sempre caro alla Cancelliera tedesca – dei cambiamenti climatici, del riscaldamento globale e della salvaguardia ambientale, con gli Stati Uniti che ancora una volta hanno ribadito la loro intenzione di non tenere fede, a meno di profonde revisioni nel testo, all’accordo di Parigi del 2015: considerato dalla nuova Amministrazione troppo vincolante e restrittivo per l’industria americana, a partire da quella energetica.
Un po’ meglio è andato il dossier relativo alla lotta al protezionismo e alla difesa del libero mercato, anche se gli Stati Uniti hanno preteso l’inserimento nel documento finale di un passaggio nel quale ci si impegna congiuntamente a contrastare “tutte le pratiche scorrette del commercio”: un richiamo nemmeno troppo velato, dal punto di vista di Trump, alla Cina, ma anche un’indiretta giustificazione ad eventuali politiche protezionistiche che gli Stati Uniti dovessero adottare per difendere la propria economia da chi, a loro giudizio, non rispetta le regole.
Assai più solida, ma anche più scontata, l’intesa sulla lotta al terrorismo, divenuto il tema mediaticamente preminente dell’incontro sotto l’impressione dell’attentato a Manchester. Il documento che ne è uscito, pomposamente denominato “Dichiarazione di Taormina”, in realtà ripete impegni già tante volte sottoscritti e ratificati, con l’aggiunta di una maggiore integrazione tra le forze di polizia e i servizi di intelligence finalizzata a bloccare, con l’aiuto indispensabile delle grandi corporation informatiche, la propaganda terroristica che attualmente circola liberamente in rete.
Il vero e sostanziale fallimento, tuttavia, riguarda come accennato l’immigrazione. Ed è ahimé un fallimento soprattutto italiano a leggere con attenzione il documento finale sul tema, dove si riafferma – ancora una volta in virtù del pressing diplomatico americano e fermo restando l’impegno a rispettare i diritti umani dei migranti e rifugiati – “il diritto sovrano degli Stati, individualmente e collettivamente, a controllare i loro confini e a stabilire politiche nel loro interesse nazionale e per la sicurezza nazionale”. Trump pensa evidentemente al Messico. Ma riportato nel contesto europeo questo principio significa che l’Italia dovrà continuare ad affrontare da sola, senza l’aiuto degli altri partner europei (nemmeno troppo dispiaciuti per questo), l’emergenza umanitaria degli sbarchi sulle sue coste e l’emergenza sociale degli immigrati cui dare assistenza logistica, cure mediche e aiuti economici una volta giunti sulla terraferma.
La sordità dei partecipanti al summit, anche solo alla luce della cronaca, non poteva essere più grande. A Napoli, notizia di queste ore, stanno per arrivare 1400 persone, da dirottare verso strutture d’accoglienza che sono già da un pezzo al collasso. Ma si calcola che solo nell’ultima settimana siano arrivate, nei diversi approdi del sud Italia, qualcosa come 10000 persone. Altre 3000 in queste ore fluttuano nel Mediterraneo, col rischio di naufragi e annegamenti. E con la bella stagione da poco iniziata il flusso umano via mare rischia di farsi inarrestabile. Ormai non bastano più nemmeno i salvataggi e i recuperi operati dai navigli delle Ong. Gli ultimi interventi sono stati fatti da carghi commerciali. Ma di tutto ciò a Taormina evidentemente non è arrivato nemmeno l’eco. Tra l’altro, vista l’ossessione dimostrata da tutti i presenti per il tema della sicurezza e del terrorismo, ci si sarebbe dovuti almeno preoccupare del fatto – denunciato da un recentissimo rapporto della Nato – che tra migranti e scafisti si nascondono con certezza jihadisti arruolati in Libia dall’Isis. Che arrivano sì in Italia ma poi vanno in giro per l’Europa.
C’è chi dice che a un simile vertice non si poteva chiedere di più, anche in considerazione dell’oggettiva eccentricità di una formula di governance globale priva di strutture operative e decisionali stabili e realizzata unicamente attraverso riunione periodiche che producono grandi scenografie e documenti pieni, nella migliore delle ipotesi, di buone intenzioni. C’è poi da considerare che il G7 non riflette da un pezzo i veri equilibri di potere sulla scena internazionale: difficile decidere sui destini dell’umanità quando non la si rappresenta se non in piccola parte. Stavolta c’era poi l’incognita di Trump, al suo esordio in un summit internazionale di questa natura. Un’incognita doppia: caratteriale, come si è visto da certi sgarbi e contrasti (con la Merkel, con Juncker) nemmeno camuffati dal bon ton diplomatico. E politica, vista la rapidità con cui il presidente americano è uso cambiare le priorità della sua agenda internazionale (il voltafaccia sull’Arabia Saudita la dice lunga), dimostrando in sostanza di non averne nessuna.
Lo schema di questo incontro, che lo rende ancor più fallimentare, ad ogni modo è parso chiaro. Gli Stati Uniti (almeno con questa Presidenza) non si considerano un interlocutore dell’Europa, ma un suo potenziale antagonista sulla scena internazionale, essendo interessati piuttosto a dialogare singolarmente con la Gran Bretagna, con il Giappone o con il Canada secondo le loro esclusive priorità interne. Ma l’Europa che denuncia l’unilateralità e la miopia strategica di Trump non è a sua volta esente da colpe. Al di là della sua retorica sull’unità, l’integrazione e la leale collaborazione tra i membri della Ue, restano le differenze di visioni, di interessi e di scelte sulle materie davvero cruciali. Tutti pronti a bacchettare gli americani insensibili all’ambiente, tutti d’accordo sul ridurre drasticamente le emissioni inquinanti nel 2050 o nel 2070, quando chissà chi governerà la Francia o la Gran Bretagna, ma gli immigrati – lo si era capito in realtà già prima di Taormina – oggi in casa propria non li vuole nessuno. E questa è una miopia tutta europea, gli americani non c’entrano nulla.
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