di Luca Marfè

TrumpNEW YORK – È tempo di chiudere il cerchio della riforma sanitaria, di soppiantare una volta per tutte l’eredità di Obama. Questo in buona sostanza il messaggio che Trump ha voluto lanciare ai suoi.

L’occasione è quella di un pranzo informale tra le mura della Casa Bianca con un gruppo ristretto di senatori. Presente all’appello anche il vicepresidente Mike Pence, al lavoro sullo spinoso dossier già da svariate settimane.

Bisogna farlo e bisogna farlo bene. Meglio prima che dopo, però. Perché i tempi e soprattutto la pazienza degli elettori cominciano a vacillare.

Nonostante un percorso tormentato da incidenti politici più o meno gravi, Trump deve infatti gran parte dei suoi consensi alla puntualità con cui è riuscito in qualche modo a dare seguito alle sue promesse elettorali. E di questo ne sono ben coscienti sia lui personalmente che più in generale tutti i volti del suo team.

Guai ad essere inquadrati, dunque, come dei venditori di fumo, anche e soprattutto dalla “pancia” di quell’America che lo ha sospinto fino a Washington.

Strette di mani e sorrisi si rincorrono frettolosamente nel tentativo di convergere su un accordo difficile e delicato, destinato ad avere inevitabili e colossali ricadute sulla percezione, sia essa positiva o negativa, che i cittadini statunitensi matureranno nei confronti di questa amministrazione.

Le necessità più stringenti sono due: includere le persone con condizioni pregresse, e cioè porre al riparo dell’ombrello pubblico tutti i soggetti già affetti da eventuali sintomi o malattie, e parallelamente tutelare le fasce socio-economiche più basse ed in particolar modo gli anziani.

Insomma, è un’America che prova a tendere la mano ai più deboli, cercando di evitare però di dissanguare le proprie economie nella bolla oramai rigonfia del business dei colossi assicurativi. Di ripartire, cioè, proprio da dove si era incagliata Obamacare, vera e propria ossessione di Trump e dell’intero partito repubblicano, ma anche di alcuni democratici, da sempre scettici riguardo all’idea di emulare il modello europeo. Nulla è stato fatto nel corso degli 8 anni firmati Obama per ridimensionare le cifre di questo business e, con grande probabilità, nulla verrà fatto neanche a questo giro.

La ragione dell’intoppo è da ricercarsi da un lato nel potere delle compagnie assicurative e, dall’altro, nella difficoltà evidente di far muovere dei passi indietro ai numeri di un business che gira vorticosamente. In special modo a queste latitudini, dove la sola idea di ostacolare gli affari assume i connotati di un’eresia.

Il presidente si congeda con l’oramai consueta cascata di aggettivi grandiosi ed altisonanti. E non esita a bollare la riforma del suo predecessore come un «disastro» da abrogare e rimpiazzare quanto prima. Ma la verità è che, per quanto sia evoluta la discussione all’interno del partito, il tycoon è ben cosciente che trovare la famosa quadratura del cerchio non sia affatto cosa semplice.

Resta il sogno di annunciare la sua Trumpcare entro il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza e dell’orgoglio a stelle e strisce in cui questa America vorrebbe avere un motivo in più per brindare. E per tornare a sentirsi un po’ meno in bilico, un po’ più serena.

 

 

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