di Luca Marfè
NEW YORK – Donald Trump è il primo presidente degli Stati Uniti a non vantare alcuna esperienza di natura politica né militare. In chiave estetica, con particolare riferimento ai consensi maturati in campagna elettorale, questo suo essere al di fuori del perimetro dell’odiato establishment rappresenta senz’altro un vantaggio oltre che una delle grandi ragioni del suo approdo alla Casa Bianca. Nella sostanza, però, le cose si rivelano di giorno in giorno ben diverse e assai più complicate.
La politica, infatti, richiede per definizione delle capacità, di mediazione e non solo, che il tycoon sembra non avere.
Vero e proprio fuoriclasse nel suo ruolo di solista agitato ed agitatore. Perennemente in affanno, invece, non soltanto nel vasto ed infuocato quadro di tensione che caratterizza il suo rapporto con i democratici, ma paradossalmente ancor di più nei confronti della tormentata relazione con il “suo” partito. E le virgolette sono d’obbligo, considerato che le elezioni dell’8 novembre scorso Trump le ha vinte anche e soprattutto contro i repubblicani. Gli stessi repubblicani che, ad oggi, per tanti motivi diversi gli stanno sbarrando la strada.
Uno dei fronti più caldi è quello della riforma sanitaria, inciampata nell’ennesimo rinvio che la rimanda oramai, nella migliore delle ipotesi, all’indomani delle celebrazioni del 4 luglio.
Il presidente sa che su questo dossier, molto più che su qualsiasi scandalo o presunto Russiagate, si gioca una grossa fetta della sua credibilità e, più in generale, della sua partita con gli americani. E per quanto fino ad ora abbia a suo modo dimostrato di saper essere coerente e addirittura di parola in fatto di promesse, la verità sotto gli occhi di tutti è che la sua Trumpcare sembra essere piombata nel bel mezzo di un pantano, mediatico, ma soprattutto politico.
La questione è spinosa e lo è divenuta ancora di più alla vigilia di quella che avrebbe potuto essere la sua eventuale discussione in Senato, quando l’Ufficio di Bilancio del Congresso, un’agenzia bipartisan incaricata di tracciare stime economiche nel processo di redazione del bilancio federale, ha diffuso un documento in cui la cifra di americani che perderebbero la copertura assicurativa viene fissata a 22 milioni. Un dato colossale che consentirebbe, sì, un risparmio ingente per le casse dello Stato, ma che ha fatto storcere il naso a molti, tanto per ragioni etico-morali quanto per questioni più concrete legate al mero consenso. Aleggia il timore, infatti, che lasciare indietro un numero così vasto di cittadini statunitensi possa tramutarsi a breve in un sonoro “ceffone”. Questo in particolare di qui alle elezioni di midterm, previste per il novembre del 2018 e per le quali, già all’indomani dell’estate, si scivolerà nuovamente in contenuti e toni da campagna elettorale.
Insomma, di colpo, si fa tutto difficile.
Garantire un impianto sanitario più leggero senza perdere di vista la grande battaglia di civiltà portata avanti con fatica da Barack Obama. E, parallelamente, ricordarsi dell’altro grande cavallo di battaglia di questa presidenza: abbassare le tasse.
Non è impossibile, ma rischia di diventarlo in assenza di un accurato gioco di squadra. E Trump, mentre il partito prova a domarlo, con quello stesso partito dovrebbe imparare a parlarci. Soprattutto su un tema così delicato.
È la politica, bellezza.
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