di Alessandro Campi

9788831726658_0_0_0_75Governare è un po’ narcotizzare. Nell’esperienza storica, il potere (quello assoluto ma spesso anche quello democratico) per difendersi e mantenersi stabile non è ricorso solo alla menzogna o all’occultamento della verità. Si è anche preoccupato – grazie alla propaganda e all’utilizzo dei mezzi d’informazione – di neutralizzare i conflitti sociali attraverso l’edulcorazione della realtà e la sua rappresentazione pubblica in una forma, per così dire, banalizzata, ingentilita ed edificante.

Il caso italiano del Novecento – da Mussolini a Renzi, passando per l’Italia democristiana degli anni Cinquanta-Sessanta e il ventennio berlusconiano – è un’interessante esemplificazione di questa strategia retorico-politica che cerca di fondare il consenso, non solo sui voti e sui programmi, ma sull’ottimismo, le speranze e le promesse. Perché spaventare e minacciare quando si può illudere e far sognare?

La politica italiana come macchina della persuasione e regno della propaganda è il tema del libro da poco uscito a firma di Fabio Martini, uno dei migliori cronisti e osservatori italiani, giornalista prima al ‘Messaggero’ e ora alla ‘Stampa’ ma con una grande passione per gli studi storici (è stato allievo di Paolo Spriano). Il titolo riassume bene premesse, svolgimento e obiettivi del suo lavoro: La fabbrica delle verità. L’Italia immaginaria della propaganda da Mussolini a Grillo (Marsilio, pp. 202, euro 16).

Utilizzare i media a fini di consenso è da sempre parte integrante della lotta politica. La peculiarità italiana sta nel tentativo – ricorrente nei diversi regimi e pericoloso – di nascondere la realtà delle cose dietro una patina rassicurante e bonaria: il governo del popolo attraverso l’evasione e il sogno. E’ un meccanismo che dura da quasi un secolo.

Le veline imposte da Mussolini – il nostro più grande persuasore occulto – al giornalismo italiano hanno ad esempio l’obiettivo di nascondere la cronaca nera e i fatti di sangue. Un regime basato sull’ordine e sull’obbedienza non può tollerare le cattive notizie che generano ansia sociale e proiettano un’immagine negativa del Paese. La violenza, se non si può eliminare, si può però nascondere.

E’ lo stesso meccanismo di rimozione seguito nell’immediato secondo dopoguerra, tornata la democrazia, dalla classe dirigente democristiana. Andreotti (all’epoca giovane collaboratore di De Gasperi) non ama il neorealismo cinematografico perché offre dell’Italia un racconto segnato dalla miseria collettiva e dalla fatica di vivere. Quando nei cinegiornali si parla degli italiani che emigrano, per fame e mancanza di lavoro, li si descrive come se stessero andando in vacanza all’estero. Ma la censura in quegli anni si abbatte anche sulle gambe delle ballerine nella nascente televisione e sui baci troppo appassionati sul grande schermo. Qui non c’entra il disfattismo, ma la difesa dei valori tradizionali e dell’immagine oleografica della famiglia messi in crisi da scene e situazioni che possono risultare troppo scollacciate o provocanti. Gli italiani, alle prese col boom economico, si debbono divertire e rilassare: guai a mettergli in testa idee sbagliate o pensieri sconvenienti. La politica dispone, la Chiesa naturalmente approva.

Gran dispensatore di ottimismo sarà Berlusconi, dovendo tra l’altro far dimenticare l’Italia della partitocrazia corrotta e la violenza degli “anni di piombo”. Sua la promessa di un nuovo “miracolo italiano”. Uomo della pubblicità, il Cavaliere sa bene come toccare le corde del desiderio. Sorride e promette, e gli italiani gli credono, sino alla caduta rovinosa (ma a quanto pare non definitiva).

Nel gioco della politica edificante, tutta promesse e sorrisi, si è poi inserito Renzi. Nemico dei gufi e dei portatori di sventura (da rottamare) e fautore del ‘largo ai giovani’, per definizione ottimisti e volenterosi. La sua narrativa, sino a che è durata, si è anch’essa basata sull’edulcorazione della realtà, sull’autoelogio e sui giochi di parole.

Ma tutto ciò – spiega Martini – comporta un prezzo. L’eccesso di manipolazione, a fronte di una realtà spesso faticosa e problematica che si vuole pubblicamente negare, produce la sua nemesi: la rabbia sociale, la ripulsa della politica, la delegittimazione del potere. E non basta dichiarare chi dissente dall’ottimismo ufficiale un disfattista o un nemico del Paese. La credibilità della politica nasce anche dalla sua capacità a guardare in faccia la realtà, per quanto cruda. Nasconderla a colpi di bugie e promesse irrealizzabili non contribuisce a far nascere il Paradiso in terra. Rende solo più drammatica la resa dei conti, che prima poi arriva sempre.

* Recesione apparsa su “Il Mattino” el 31 luglio 2017.

 

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