di Luca Marfè
NEW YORK – Il razzismo negli Stati Uniti è un male diffuso, radicato e antico. Più antico dell’indipendenza stessa di questo Paese.
I fatti di Charlottesville sono soltanto l’ultima pagina di un libro che cittadini e politici continuano a scrivere sulla base di presupposti rabbiosi e sbagliati.
Nell’occhio del ciclone, come sempre oramai, Donald Trump: presidente strillone che, proprio dinanzi ad episodi così gravi, sembra non (voler) trovare le parole giuste per condannare i colpevoli ed onorare la morte della giovane Hether Heyer, la trentaduenne travolta da un’auto lanciata a folle velocità su un gruppo di manifestanti.
Che Trump abbia vinto anche grazie ai voti di una certa destra, conservatrice se non addirittura razzista, è cosa nota. Che Trump abbia sdoganato una certa dialettica e taluni atteggiamenti, è cosa altrettanto nota. Che Trump non fosse alla guida di quella macchina è fino ad un certo punto una provocazione della quale si deve pur tenere conto. Perché non tutti i mali di questa America sono figli suoi.
È sufficiente un solo passo indietro per cogliere le storture e perfino il paradosso del razzismo che cova a queste latitudini.
Con Barack Obama, infatti, gli statunitensi pensavano di potersi scrollare di dosso una volta per tutte il fardello della divisione. Un presidente di colore, il primo, chiamato finalmente a rappresentare l’altra metà dell’America, quella degli ultimi, quella dei più deboli, che per anni si sono sentiti oggetto di piccoli e grandi squilibri economici, ma soprattutto sociali. E invece gli alti momenti di ispirazione, i grandi discorsi dell’ex-presidente non sono bastati. Insomma, l’antidoto Obama non ha funzionato, non ha salvato questo Paese da quello che si è consolidato nel tempo come una sorta di dna. Un codice difficile, se non impossibile, da correggere. E qui il paradosso: lo scenario, infatti, è in qualche modo persino peggiorato. Non per colpa di Obama, certo, ma l’onda della rabbia è continuata a montare, a farsi più alta. Perché la cura ed il rispetto quasi maniacali di tutte le minoranze ha fatto sì che a sbattere i pugni sul tavolo fossero proprio gli americani, quelli tra virgolette “veri”. Definizione volutamente semplicistica, sulla quale si può evidentemente concordare oppure no, tesa ad indicare gli operai, i contadini, in generale le vittime più o meno recenti di una globalizzazione che avrebbe dovuto rendere tutti più ricchi e che, viceversa, ha reso tutti più poveri.
E così, a furia di parlare di musulmani, stranieri e via via di tutte le categorie degli “altri”, l’America ha finito col discutere e col preoccuparsi di tutti. Di tutti, tranne che di loro, appunto: dei sedicenti americani “veri”. Che talvolta esprimono il proprio dissenso nell’ordine composto delle urne, e mollano un ceffone proprio al duo Obama-Clinton, e talvolta, invece, mostrano il loro volto peggiore nel caos delle grida, degli spintoni, addirittura dei morti.
Atteggiamenti, che prendono forma in veri e propri movimenti, che non possono e non devono trovare giustificazione alcuna.
Nel quadro di un dibattito (che dibattito non è) che dovrebbe forse smetterla di rimbalzare tra le accuse sorde dei democratici da un parte e di quelle dei repubblicani dall’altra.
Per un Paese che ha un gran bisogno di guardarsi allo specchio, di tornare a parlarsi.
Per un pasticcio assai più vasto e assai più complicato dell’oramai consueto “è tutta colpa di Trump”.
Questo per chi volesse capire l’America di oggi e pure quella di ieri.
Per tutti gli altri, invece, le scuse di chi si è dilungato inutilmente: è tutta colpa di Trump.
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