di Maria Cristina Pesaresi

Dovevano essere lo strumento attraverso cui rinnovare la politica italiana, dandole nuova linfa ideale, nuove idee e nuove visioni progettuali. Dovevano contribuire al rinnovamento della classe dirigente nazionale e alla formazione di nuovi quadri tecnico-ammnistrativi. Dovevano creare una spazio intermedio tra ricerca scientifica e mondo politico-istituzionale. Dovevano favorire la discussione pubblica sui grandi temi della società, dell’economia e della politica, interna e internazionale. Si sono risolte – purtroppo – in un colossale fallimento.

Stiamo parlando delle fondazioni di cultura politica, dei think tank o laboratori di idee nati come funghi nell’ultimo decennio, strutture piccole e grandi, di ogni orientamento politico.

Crollati i partiti ideologici di massa che avevano sorretto la Prima Repubblica, sparite le scuole di formazione e orientamento dottrinario, le riviste e i circoli che facevano capo a questi ultimi, si era creato un grande vuoto, per fortuna presto colmato dall’introduzione anche in Italia di questi nuovi strumenti, che da sempre svolgono un ruolo cruciale della tradizione politica in particolare anglosassone.

Sembrava un’innovazione radicale, l’inizio di un nuovo corso. A distanza di anni bisogna invece riconoscere che il bilancio di quest’esperimento è da considerarsi largamente negativo.

Dal lato organizzativo e finanziario, nessuna di queste strutture è riuscita ad acquisire una reale consistenza e autonomia, complice anche una legislazione che non favorisce i finanziamenti privati e le donazioni. Al dunque molte delle cosiddette fondazioni sono rimaste poco più che sigle, in grado al massimo di organizzare qualche presentazione di libro o, nella migliore delle ipotesi, una giornata congressuale. L’idea che attraverso le fondazioni si potesse finanziare la ricerca, consentendo la crescita di una nuova leva di studiosi e analisti, si è rivelata una semplice chimera.

Ma il vero limite è stato un altro. Le fondazioni, gli istituti e i centri di studio che attualmente affollano la scena politica nazionale, in un turbinio di sigle e acronomi, altro non sono, nella stragrande maggioranza dei casi, che emanazioni funzionali – per meglio dire, strumentali – di questo o quel singolo personaggio politico. Non hanno, come sarebbe normale, una dichiarata appartenenza “ideologica”, elemento che di per sé non renderebbe impossibile lo svolgimento di una seria e approfondita attività d’indagine, come appunto dimostra l’esperienza dei think tank negli altri Paesi: sono piuttosto correnti di partito mascherate (nella migliore delle ipotesi) o il fiore all’occhiello da esibire in società di questo o quel leader (nella peggiore). Si tratta dunque di strutture destinate, quasi per definizione, ad una vita effimera: nate per soddisfare le ambizioni politico-intellettuali di coloro che le hanno fondate e dotate di mezzi finanziari, difficilmente esse sono in grado di sopravvivere ai loro rovesci di fortuna o ai loro cambi di umore e di visione tattica.

Il loro carattere per così dire personalistico ha inoltre finito per incidere anche sui contenuti del lavoro svolto all’interno di tali realtà. Non ci si è preoccupati di elaborare ricerche e indagini di largo respiro, finalizzate ad acquisire dati e conoscenze, minimamente fondati e obiettivi, sui temi-chiave della politica contemporanea. Dati e conoscenze a dir poco necessari per dare un minimo di profondità e di respiro strategico alle scelte o decisioni politiche. Ci si è accontentati piuttosto di intervenire nel dibattito pubblico con modalità estemporanee e con il tono tipico delle querelle politico-giornalistiche, con l’idea non di sostenere una posizione minimamente argomentata e razionale, ma di affermare un punto di vista pregiudiziale o una tesi precostituita.

Sparite o entrate in crisi le culture o tradizioni politiche della storia repubblicana, si trattava di rifondarle su basi nuove o di renderle compatibili con i profondi cambiamenti – di mentalità e linguaggio, tecnologi e sociali – intervenuti anche in Italia negli ultimi vent’anni. Il vero scopo di fondazioni e centri di ricerca doveva essere quello di stimolare la politica nazionale a compiere un salto di qualità, a uscire dal vuoto progettuale in cui essa è piombata nel momento in cui un intero sistema partitico-istituzionale, divenuto tragicamente obsoleto, è crollato sotto il peso delle proprie contraddizioni. Tutto ciò, semplicemente, non si è verificato.

Anche se non mancano eccezioni virtuose, la stagione delle fondazioni di cultura politica à l’italienne, che tante speranze aveva suscitato, si è lentamente consumata tra personalismi politici eccessivi, penuria cronica di mezzi finanziari e tentativi di piegare il lavoro intellettuale agli interessi contingenti. C’è da stupirsi se la politica italiana, in queste settimane di passione, ha dato l’impressione di essere un autentico deserto, popolato da soggetti privi di idee e interessati solo alla loro personale sopravvivenza?