di Daniele Bronzuoli
Il fallimento del progetto di riforma istituzionale ed economica del Paese – la cosiddetta «rivoluzione liberale» annunciata nell’ormai lontano 1994 da Berlusconi – e l’oramai pressoché inevitabile chiusura del ciclo politico legato all’attuale capo del Governo rendono più che mai attuale lo svolgimento di alcune riflessioni che sarebbe tuttavia ingiusto, oltre che poco utile, soffocare nella mera constatazione della drammatica contingenza attraversata dal Paese.
Se da una parte è infatti lecito, oltre che doveroso, prendere atto e denunciare la totale irresponsabilità, il dilettantismo e la goffaggine con la quale, in più occasioni e in diversi ambiti (si pensi solo all’ultima manovra economica), l’attuale maggioranza ha predisposto la propria azione di governo, dall’altra non si può ignorare che quello berlusconiano non è stato l’unico tentativo di modernizzazione italiana infrantosi sugli scogli sia di reticenze sociali ed economiche, sia di veti costituzionali e istituzionali. Molto prima del Cavaliere, fu infatti Craxi a lanciare durante il congresso socialista di Palermo (1981), l’idea di una «grande riforma» che prevedesse ruoli diversi per Camera e Senato, maggiori competenze per la presidenza del Consiglio e il controllo parlamentare sull’operato dei pubblici ministeri. L’idea, ripresa nel 1991 da Giuliano Amato e dallo stesso segretario del PSI, non trovò mai in Parlamento la maggioranza necessaria ad accogliere un disegno di legge che avrebbe consentito tanto il superamento del problema relativo alla stabilità e alla efficienza degli esecutivi – la cui durata media si aggirava nella cosiddetta «prima repubblica» attorno ai dieci mesi – quanto, attraverso la revisione dell’articolo 138, la soluzione dei nodi inerenti all’adeguamento della Costituzione italiana alle necessità legislative di una moderna società industriale. Circa quarant’anni prima, De Gasperi cercò di sciogliere la letale combinazione di instabilità governativa e immobilismo politico modificando, con l’introduzione di un forte «premio» di maggioranza, il sistema proporzionale in vigore dal 1946 e conoscendo prima la violenza dell’opposizione parlamentare, la quale non esitò a richiamare provocatoriamente il ricordo della legge Acerbo, poi le numerose defezioni interne agli stessi ranghi democristiani ed infine, con le elezioni del giugno 1953, l’affossamento definitivo della nuova legge elettorale nonché la conclusione stessa della sua carriera politica.
All’innegabile deficit di competenza e autorevolezza accumulato dall’attuale compagine governativa particolarmente nel corso della ultima legislatura, si sovrappone dunque una carenza, ben più complessiva e strutturale, di capacità decisionale e deliberativa del nostro potere esecutivo. Sconosciuto alla quasi totalità delle altre democrazie liberali, europee e non, il deficit di autorità di cui soffre l’organismo governativo in Italia affonda le sue radici nella lettera e nello spirito di una Costituzione che, pensata per scongiurare derive autoritarie e pericoli di un nuovo fascismo, rappresenta il prodotto del compromesso tra due culture, quella solidaristica cattolica e quella comunista, fortemente caratterizzate da una concezione paternalistica dello Stato e delle istituzioni.
L’evocazione di alcuni casi concreti e specifici può contribuire ad illuminare meglio la duplice natura, insieme contingente e costitutiva, del problema che stiamo esaminando. Innegabilmente l’attuale maggioranza, anche per via delle divisioni esistenti al suo interno, non ha avuto il coraggio necessario ad affrontare e vincere i veti incrociati di quel «blocco sociale conservatore» che – come ha lucidamente osservato Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 10 settembre – ha come unico obiettivo «la sopravvivenza», «l’immobilità», la conservazione di privilegi e il mantenimento di rendite di posizione a danno di ceti e forze economiche prive di adeguata rappresentanza politica e sindacale. Ancora per molto, troppo tempo infatti, sulla base del testo di riforma previdenziale contenuto nella manovra già passata al Senato, le giovani generazioni dovranno continuare, attraverso contratti di lavoro penalizzanti, a rinunciare in maniera sostanziosa ai propri benefici contributivi per pagare quelli di coloro che in Italia, esattamente come nella Grecia a rischio di bancarotta, vanno e andranno ancora in pensione «nel fiore degli anni». Nondimeno, ogni volontà di procedere alla riduzione dei livelli di rappresentanza politica attraverso la soppressione delle Province, di sfoltire il numero dei Parlamentari o di imbastire la riforma di un sistema giudiziario che dietro il vessillo dell’indipendenza cela smanie di autoreferenzialità e di interferenza con la già fragile azione dei poteri elettivi, è e sarà destinata a scontrarsi con la rigidità di una Costituzione per la cui parziale revisione occorrono «due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi» e il referendum popolare per le leggi approvate a maggioranza assoluta in ciascuna Camera, oppure due deliberazioni, ma senza referendum, per i provvedimenti approvati «nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti» (art. 138). A ciò si aggiunga la patente conflittualità e contraddizione tra il criterio della maggioranza qualificata appena richiamato e l’evoluzione del nostro sistema politico verso forme di bipolarismo più o meno compiuto.
Non sorprende pertanto che la «lunga e faticosa transizione» dalla prima alla «seconda Repubblica», richiamata anche da Sofia Ventura sulle pagine di questo giornale, si trovi oggi in una preoccupante situazione di stallo. L’impressione è che, per uscirne, sia necessario liberare la sovranità popolare dalle pastoie congegnate non per rappresentare l’elettorato, ma per guidarlo alla ricerca di un «Bene» che esso ignora.
Ciò che serve, in altri termini, è il coraggio della democrazia.