di Giuliano Gioberti

C’è una ragione “politica” – dunque non personalistica o dettata da ragioni caratteriali – che possa giustificare la decisione di Gianfranco Fini, reiterata l’altro dì a Mirabello tra qualche malumore della sua base militante, di non abbandonare la carica di Presidente della Camera per assumere in prima persona la guida di Futuro e libertà?

S’è detto che a frenarlo è un’atavica e notoria indolenza, che lo ha spinto ad affidare alle altrui fatiche la sua ultima creatura politica. Ovvero il timore di perdere una posizione istituzionale che gli garantisce, a conti fatti, autorevolezza e visibilità (oltre ad alcuni non trascurabili benefici materiali). Altri hanno sostenuto che a costringerlo in quel ruolo, che egli volentieri lascerebbe per tornare nelle piazze, è il Capo dello Stato, che di lui si fida e molto meno si fiderebbe – soprattutto nell’eventualità di una crisi parlamentare, data da parecchi osservatori come imminente – di un uomo che giungesse alla guida di Montecitorio su mandato di Berlusconi. Infine, s’è chiamata in causa la mancanza di coerenza (e di senso della responsabilità) di chi, pur appellandosi ogni giorno allo Stato e al rispetto delle istituzioni, non si è ancora reso conto del danno arrecato alla somma carica che riveste, che dovrebbe essere quanto più possibile neutrale e super partes, dal suo continuo intervenire nel dibattito pubblico alla stregua di un capo fazione.

La ragione suddetta – di natura per l’appunto politica – a ben vedere esiste, per quanto possa risultare sgradita a chi sinora ha creduto nel progetto di Futuro e libertà, ritenendolo magari un progetto minoritario e tutto in salita, ma destinato a porre le basi di una destra a venire, finalmente libera dal giogo berlusconiano.

Essa consiste nel fatto che Fini per primo, pur avendolo fatto nascere, non crede nell’utilità strategica del partito affidato alle cure e alle ambizioni di Italo Bocchino.

Futuro e libertà per Fini è, con ogni evidenza, un partito “a tempo” o se si vuole a scadenza, come i prodotti alimentari e farmaceutici. E’ nato, a dispetto dell’enfasi con cui è stato presentato all’opinione pubblica, come bacino di contenimento all’indomani della perduta battaglia parlamentare con il Cavaliere; dunque per offrire uno spazio di manovra e un minimo di agibilità politica a coloro che generosamente sono rimasti al fianco di Fini anche all’indomani del fallito assalto del 14 dicembre 2010.

Nella testa del Presidente della Camera – che nel discorso di Mirabello, forse senza essere nemmeno compreso dai suoi, ha correttamente e sinceramente derubricato Futuro e libertà da partito organizzato a movimento di idee – nell’attesa che il “regno di Berlusconi” cada davvero ciò che serve non è una struttura radicata sul territorio, ovvero un simulacro di ciò che furono il Msi prima e Alleanza nazionale poi, ma una sigla di comodo, un rifugio di fortuna, che assicuri la sopravvivenza sino a che quel giorno fatale sarà arrivato.

L’idea che dal giorno seguente alla caduta o scomparsa di Berlusconi tutto sarà diverso da oggi, che i giochi si riapriranno e tutto diverrà possibile, che si apriranno spazi di manovra inediti e al momento non prevedibili, non è in effetti del solo Fini, ma di un pezzo consistente della nostra classe politica. Nessuno ama pensare che venendo meno il Cavaliere venga contestualmente meno un intero assetto politico-istituzionale, che con lui possano sparire molti di coloro che di quest’ultimo ventennio sono stati, in qualche modo, protagonisti o partecipi. Difficile dire se si tratti di una valutazione minimamente fondata o di un abbaglio collettivo che rischia di essere pagato a caro prezzo da chi lo coltiva.

Quel che conta è che un tale convincimento sembra stare alla base della scelta di Fini di farsi un partito (ovvero una sigla con la quale rendersi riconoscibile nel dibattito politico), ma di non assumerne direttamente la guida. Perché mettersi al vertice di una formazione destinata a sparire un attimo dopo che il “nemico pubblico” numero uno non sarà più tale?

La vera partita di Fini – questo pensa il medesimo Fini con ogni probabilità – non si gioca oggi, attraverso un partito che, sondaggi alla mano, vale al massimo il 3% dei consensi, ma in un domani imprevedibile e tutto da inventare, all’interno del quale Futuro e libertà, nella sua configurazione attuale, non avrà alcun ruolo da svolgere e si risolverà in poco più che un ricordo.

Lo schema mentale del Presidente della Camera prevede, a ben vedere, che il dopo-Berlusconi ricalchi, nei suoi effetti se non nella sua dinamica, la fine della Prima Repubblica: ciò significa che la scomparsa più o meno traumatica dei vecchi attori, piccoli e grandi, favorirà la costituzione di nuove aggregazioni. E come nel passaggio da un assetto partitico-istituzionale all’altro, tra il 1992 e il 1994, a Fini riuscì d’inserirsi nella dialettica politica con un ruolo da protagonista, lo stesso potrebbe accadere nel caso di un nuovo (e assai probabile) crollo di sistema.

Si potrebbe obiettare che la storia non si ripete mai eguale a se stessa. E che l’abilità dimostrata in un’occasione (o la fortuna di cui s’è beneficiato in quella particolare circostanza) non è detto che si possa replicare. Ma ciò rientra nelle considerazioni (e speranze) soggettive. Ciò che meritava di essere spiegato è perché Fini, nello sconcerto di molti osservatori e di una fetta consistente dei suoi stessi sostenitori, si tiene cosi stretta la poltrona di Presidente della Camera e lascia ad altri la conduzione politico-organizzativa di Futuro e libertà. La ragione s’è detta ed è molto semplice: perché il partito che deciderà del suo eventuale futuro politico non è quello che si è riunito domenica scorsa a Mirabello. Eccesso di cinismo o di lungimiranza? Lo decida il lettore.