di Gabriele D’Ottavio, Michele Marchi
Da alcuni anni l’Unione europea sta affrontando forse il periodo più difficile della sua storia. Le politiche di contrasto alla crisi economica hanno richiesto importanti sacrifici alle società europee e hanno fatto emergere differenti visioni sul futuro dell’integrazione. In molti paesi membri si sono diffusi e rafforzati movimenti e partiti sommariamente definiti «euroscettici», che nelle elezioni del 2014 hanno ottenuto un considerevole numero di seggi al Parlamento europeo. Oltre alle questioni finanziarie, ai temi divisivi si sono, quindi, aggiunti anche i problemi legati alla gestione della crisi dei migranti e dei rifugiati che, in seguito all’acuirsi della crisi economica e ai fallimenti di alcune delle rivoluzioni della Primavera araba del 2011, a partire dall’estate 2015 hanno iniziato a riversarsi verso l’Europa settentrionale, passando per il Mediterraneo o attraversando i Balcani. Le divergenze sulla politica finanziaria e migratoria sono state peraltro importanti anche per la scelta del governo britannico di tenere un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea nel giugno del 2016. Il risultato – il 51,9% dei votanti si è espresso per l’uscita dall’Ue – ha aperto un difficile processo negoziale che porterà, nei prossimi anni, a ridefinire il rapporto tra Londra e Bruxelles. Un’incognita forse ancor maggiore per il futuro dell’Ue, per la sua sicurezza e per le sue prospettive di crescita economica, è rappresentata dalla presidenza Trump, che ha annunciato un ripiegamento degli Stati Uniti sugli affari interni. Non senza un certo paradosso, dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace all’Ue nel 2012, le dinamiche conflittuali all’interno e all’esterno dei suoi confini si sono accentuate. La crisi ucraina del 2014 ha mostrato che la politica di potenza non può essere relegata al passato dell’Europa e la difficoltà di comunicazione tra l’Ue e le potenze del vicinato – in particolare Russia e Turchia – rischia di ostacolare la risoluzione di crisi ai confini dell’Unione. I successivi attentati terroristici che hanno colpito le città di Parigi, Nizza, Bruxelles, Berlino e Londra hanno contribuito a rafforzare nella popolazione europea la percezione di una crescente vulnerabilità, fuori dal controllo dei governi.
È questo il contesto internazionale nel quale nel 2017 si sono svolte le elezioni politiche in alcuni importanti paesi europei. Gli appuntamenti elettorali più attesi e, per certi aspetti, anche più temuti si sono svolti in Francia e in Germania. In entrambi i casi i risultati sono stati sorprendenti. In Francia si può addirittura parlare di un esito rivoluzionario, per la presenza al ballottaggio di Marine Le Pen e Emmanuel Macron e la conseguente assenza di entrambi i candidati dei due partiti cardine della V Repubblica (mai accaduto dalla prima elezione presidenziale a suffragio universale diretto del 1965) e per la vittoria di un candidato con scarsa esperienza politica e senza un vero partito di riferimento (En Marche! è stato fondato nella primavera del 2016 sul modello del club o comunque dell’associazione politico-culturale). In Germania il calo di consensi registrato dalle due storiche Volksparteien – Cdu/Csu e Spd – è stato sicuramente meno eclatante che in Francia, ma comunque importante. Soprattutto perché la principale beneficiaria è stata Alternative für Deutschland, un partito di estrema destra. Né va sottovalutato il fatto che per la prima volta nella storia tedesca del secondo dopoguerra, per alcuni mesi, è stata in discussione la tradizionale disponibilità dei partiti tedeschi a trovare un accordo per la formazione di un governo di coalizione.
Al netto delle rilevanti differenze, le decisioni prese dall’elettorato francese e tedesco riflettono fenomeni e mutamenti che sono in atto anche in altri contesti nazionali, tra cui la scomparsa o il declino dei partiti tradizionali, l’emergere di movimenti xenofobi, la difficoltà delle leadership di dialogare con la base elettorale.
Grazie al contributo di undici qualificati esperti nazionali e internazionali, questo fascicolo della “Rivista di Politica” offre alcune chiavi di lettura che consentono di cogliere le più recenti evoluzioni della politica francese e tedesca e le sue possibili implicazioni per il futuro dell’Unione europea.
Qui Parigi… Lo sforzo di Macron per rilanciare l’Europa attraverso un rinnovato accordo franco-tedesco
Non vi sono particolari dubbi su cosa sia stato l’asse franco-tedesco sino al termine della Guerra fredda, emblematicamente rappresentata, nella parte occidentale del Vecchio continente, dal crollo del muro di Berlino e della successiva riunificazione tedesca.
Se si vogliono individuare schematicamente quattro passaggi si può affermare che l’asse sia stato, tra il 1950 e la firma dei Trattati di Roma, lo strumento politico utilizzato da Parigi per ribadire la sua centralità europea mentre si profilava la traumatica perdita dell’impero e contemporaneamente per circoscrivere la prepotente crescita economica dell’allora Repubblica Federale nella fase di ricostruzione.
Con la firma del Trattato dell’Eliseo (gennaio 1963) da un lato si ribadivano i fondamentali del rapporto franco-tedesco e dall’altro de Gaulle manteneva ancorata alla dimensione continentale europea una Repubblica Federale che però non celava un rinnovato attivismo e autonomia sia nella politica occidentale (nei confronti degli Usa, vedi la questione del preambolo filo-atlantista imposta ad Adenauer dal gruppo Cdu al Bundestag), sia sul fronte orientale (con quella che sarebbe poi stata la Ostpolitik di Brandt).
Il terzo tempo dell’asse fu quello dominato dalle figure di Schmidt e Giscard d’Estaing, ma soprattutto quello del complicato decennio post-Bretton Woods e del momento di non ritorno 1973, per la crescita continua e l’unità dell’Occidente. Era il decennio che vide incrinarsi per la prima volta il rapporto euro-atlantico. Con il G6 di Rambouillet (1975) e il successivo lancio del Sistema Monetario Europeo (1979), l’Occidente euro-atlantico cercava di rispondere alla fine del mondo di Bretton Woods e l’asse franco-tedesco era l’architrave di questo tentativo.
Il quarto tempo fu appunto quello della “gestione” della riunificazione tedesca e dell’accelerazione (inevitabile) di Maastricht (1992), ma – attenzione – anche di Copenaghen (1993). Moneta unica e Bce a guida tedesca, ma anche allargamento, ancora una volta a guida tedesca.
Da quel momento iniziò una nuova storia, per l’Europa comunitaria e anche per i rapporti Parigi-Berlino. E non a caso cominciò a mostrarsi sempre più evidente l’insofferenza francese per un’Ue a trazione economica ma anche geopolitica tedesca. Basti pensare ai due complicati referendum del 1992 e del 2005, come anche ai numerosi contenziosi con Berlino sia sul completamento (mancato) di Maastricht, sia appunto sulla gestione politica ed istituzionale dell’allargamento del 2004-2007.
A questo quadro già confuso e in divenire, si devono poi aggiungere due ulteriori fattori. Il primo interno ai due sistemi, quello francese e quello tedesco. Le scelte di politica economica della sponda est del Reno sono andate nella direzione della riforma del mondo del lavoro, del sistema pensionistico e in generale della totale immersione del modello Deutschland nello spazio della globalizzazione neo-liberale. La sponda est del Reno, quella francese, ha in maniera ostinata cercato di perpetrare il proprio modello stato-centrico, resistendo alla cosiddetta mondialisation, cercando di anteporre il proprio primato politico allo strapotere economico tedesco.
Su questo quadro è piombato il secondo fattore, la crisi dell’area euro successiva a quella finanziaria proveniente da oltre Oceano. Si è aperto un decennio, quello che in Francia è coinciso con le presidenze Sarkozy e Hollande, che ha visto Parigi svolgere il ruolo di junior partner rispetto alla Germania di Angela Merkel, gigante economico a livello continentale e anche sempre più guida politica, perlomeno nei palazzi comunitari di Bruxelles e Strasburgo. Dal Merkozy si è passati al Merkhollande, ma il risultato non è cambiato. Austerità, rigore, disciplina di bilancio e politiche deflattive hanno dominato l’ultimo decennio europeo, tramutando l’asse in una sorta di “tandem” a guida economica, ma anche politica, tedesca.
L’elezione di Macron, almeno potenzialmente, potrebbe mutare il quadro. E questo essenzialmente per tre ragioni.
Prima di tutto Macron ha intenzione di portare a termine il percorso di riforma del modello francese che i suoi predecessori avevano solo in parte avviato.
In secondo luogo sembra essere definitivamente archiviata quella vera e propria ossessione francese per la possibile “deriva tedesca”. La logica dell’asse e del coinvolgimento europeo della Germania finalizzato al suo depotenziamento non solo è tramontata (e in parte fallita) ma non sembra più essere considerata determinante per Parigi.
E questo perché, terzo e ultimo fattore, Macron sta dando l’impressione di voler giocare anche su un altro tavolo, oltre che su quello europeo. Quello del multilateralismo, mostrando al mondo (e soprattutto a Berlino), che senza velleità da grande potenza, in realtà Parigi può ancora, grazie alla sua diplomazia e alle sue forze armate (quello francese è l’unico bilancio militare che si avvicina a quel 2% del PIL richiesto dalla Nato a livello europeo), pur essendo una media potenza, svolgere un ruolo geopolitico e strategico nell’attuale caos globale. Macron, da questo punto di vista, pare aver colto le potenzialità di una media potenza con una politica estera pro-attiva in uno scenario multipolare. La Germania, su questo fronte, è pronta a cogliere l’occasione? Intende assecondare Parigi o giocare una sua partita?
Un ragionamento di questo genere in parte può anche prescindere dai risultati che nell’immediato riuscirà ad ottenere Macron. Come è noto, il giovane inquilino dell’Eliseo da un anno (dal discorso di Atene a quello di fronte al Parlamento europeo passando per il “manifesto” della Sorbona) sta delineando il suo piano di rilancio del processo di integrazione e di conseguenza prospettando un nuovo e ri-equilibrato asse franco-tedesco. A fine giugno si potrà capire quale sarà il contributo tedesco a queste ipotesi. Ma anche se, come prevedibile, le proposte più rivoluzionarie su unione bancaria, Fondo monetario europeo, Parlamento dell’area euro e bilancio separato della stessa euro-zona, che nel concreto significherebbero rilancio di un’Europa più coesa a guida franco-tedesca (la famosa Europa a due velocità), saranno depotenziate, l’impressione è che qualcosa comunque di potenzialmente traumatico si possa verificare.
Mentre riceveva il premio Carlo Magno il 10 maggio scorso ad Aquisgrana, Macron si è rivolto ai presenti e in particolare ad Angela Merkel ricordando, tra le altre, due questioni rilevanti. I settanta anni dell’Europa post-bellica, dominati da pace e prosperità, prima di tutto non hanno caratterizzato la vita dell’intero continente (pace e prosperità per un cittadino polacco, ceco o ungherese?) e proprio per questo non devono essere dati per scontati. L’assuefazione alla prosperità a-conflittuale finirebbe per rendere ciechi di fronte al ritorno prepotente del “tragico” nella storia europea. Per questo occorrerebbe, nell’ottica di Macron, una visione europea forte per il prossimo trentennio di vita del continente.
Il secondo monito è stato ancora più diretto: la Francia completerà il suo processo di riforme per tornare ad essere partner credibile nell’asse franco-tedesco. Berlino dovrà però abbandonare la sua visione «feticista» (questo il termine utilizzato) sui conti pubblici così come sugli eccedenti commerciali, non dimenticando che integrazione e solidarietà sono due elementi costitutivi del processo di costruzione europea, dotati di pari dignità.
Nei prossimi mesi insomma si potrà forse vedere se, dopo circa un trentennio caotico, l’asse franco-tedesco tornerà a mostrare un volto coerente e con esso l’intero processo di integrazione europea. L’alternativa, spiace dirlo, appare quella di una dissoluzione del quadro comunitario continentale.
Qui Berlino… L’Europa (e la Francia?) al primo posto nel programma di governo della nuova Grande coalizione
Il fatto che il ritorno della Germania a un ruolo di primo piano sulla scena internazionale sia stato in parte favorito dal suo nemico storico – la Francia – può essere considerata una delle tante perfidie della storia. Nel lungo periodo, la collaborazione franco-tedesca ha senz’altro favorito un rafforzamento significativo della Repubblica Federale in Europa. E particolarmente gravido di conseguenze fu il Trattato dell’Eliseo, con il quale venne suggellata, nel gennaio 1963, la cosiddetta «riconciliazione franco-tedesca». Alla fine fu probabilmente la Germania Ovest a trarre i maggiori benefici da un accordo che nell’immediato sembrò averle arrecato più danni che benefici, avendola posta dinanzi a un conflitto di priorità tra i suoi due partner strategici – Stati Uniti e Francia –: una scelta difficile alla quale il governo aveva cercato invano di sottrarsi. All’epoca, la proposta di de Gaulle prefigurava un’Europa più franco-centrica, più indipendente dagli Stati Uniti e meno sovranazionale. Da un lato, il governo di Bonn si dichiarò disponibile a esplorare vie alternative per la realizzazione di un’unione politica a trazione franco-tedesca, che salvaguardasse la sovranità nazionale degli stati membri senza però intaccare i Trattati di Roma; dall’altro declinò esplicitamente l’invito del Presidente della V Repubblica francese a concordare insieme a lui un piano di revisione della Nato. Da lì in avanti, la Bundesrepublik non venne più percepita come un oggetto delle decisioni altrui, bensì come un soggetto capace di incidere con le sue scelte sugli equilibri della politica europea e mondiale. La ratifica del Trattato dell’Eliseo, con l’inserimento del noto preambolo con cui i parlamentari tedeschi riconobbero il primato dell’Alleanza atlantica, le successive trattative sulla questione del rifinanziamento della politica agricola comune, la crisi della «sedia vuota», i negoziati del Kennedy Round per la liberalizzazione dei mercati e, infine, i negoziati per l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea consentirono alla Repubblica Federale di ergersi in Europa a custode sia dell’atlantismo sia dell’europeismo e di essere riconosciuta dagli altri stati membri come l’unico paese in grado di tenere testa alla Francia gollista.
Il quadro è profondamente mutato rispetto a cinquantacinque anni fa. La fine della Guerra fredda e la più recente e prolungata crisi europea hanno contribuito a far emergere una nuova gerarchia del potere in Europa. In particolare, l’elevata posta in gioco ha spinto la Germania ad affermare una nuova forma di leadership, meno disponibile rispetto al passato a condividere l’onere della decisione con gli altri stati membri e soprattutto il suo nuovo primato con la Francia. Eppure, oggi come all’inizio degli anni Sessanta, le autorità politiche tedesche sono chiamate a prendere posizione su una proposta francese di riforma organica dell’Europa comunitaria. La proposta di Macron è tarata su un’Ue trasfigurata dai grandi cambiamenti intervenuti dopo Maastricht e in parte può essere interpretata come un tentativo di correggere le crescenti asimmetrie tra i paesi più virtuosi e quelli meno virtuosi, naturalmente ritagliando per la Francia un ruolo di primo piano.
Ci sono alcune ragioni per ritenere che la risposta del nuovo governo di Grande coalizione alla proposta francese sarà ispirata da un atteggiamento fortemente pragmatico. Per rilanciare il processo d’integrazione, i responsabili della politica europea tedesca continueranno molto probabilmente a proporre soluzioni differenziate a seconda dei dossier che verranno discussi e a far valere il proprio potere negoziale su quello dei paesi meno virtuosi, motivando la loro preminenza sulla base di dati macroeconomici ancora molto confortanti: crescita superiore alla media europea, disoccupazione ai minimi storici dalla riunificazione a oggi e «deficit zero». Inoltre, in Germania, sia tra gli euro-critici sia tra le forze politiche europeiste, sono ancora molto forti gli argomenti a sostegno di un’applicazione ortodossa della politica del rigore finanziario, di una politica di accoglienza più prudente e di una politica estera orientata ai precetti della «potenza civile». Infine, i condizionamenti interni sulla politica europea saranno verosimilmente ancora maggiori che in passato, se non altro per un fattore aritmetico. Se nella scorsa legislatura il governo di coalizione Cdu/Csu-Spd poteva contare su un’amplissima maggioranza parlamentare con quasi l’80% dei seggi al Bundestag, la nuova Grosse Koalition potrà invece contare solo sul 56% dei seggi (399 seggi), con il restante 44% dei seggi controllato per quasi un terzo da AfD (94 seggi).
Al netto di queste considerazioni sugli ostacoli che si potrebbero frapporre a un effettivo cambio di rotta nella politica europea tedesca, è comunque significativo il fatto che il sostegno per una politica di rilancio dell’Europa sia emersa come il principale collante in una fase di incertezza politica inedita nella storia tedesca, assurgendo a elemento centrale nel processo di formazione del consenso post-elettorale propedeutico alla nascita della nuova Grande coalizione. È utile ricordare che nel 2013 il tema centrale dell’intesa raggiunta tra Cdu/Csu e Spd era stato il salario minimo tedesco, mentre la politica europea aveva occupato un ruolo solo marginale. Nell’accordo di coalizione del 2018 la politica europea e la collaborazione con la Francia figurano invece al primo posto.
La crescente rilevanza della politica europea nell’agenda di governo è in larga parte una conseguenza dell’impossibilità per la Germania «potenza di centro» di rinunciare a quel reticolo di interessi comuni sviluppatosi nel quadro della Comunità/Unione europea e al suo ruolo di paese di riferimento per l’Ue, come anche le vicende della crisi ucraina nel 2014 e della Brexit nel 2016 hanno dimostrato. Al tempo stesso, la rilevanza prioritaria assegnata dai partiti di governo alla politica europea è forse anche la riprova del fatto che in Germania le forze più favorevoli all’integrazione europea ritengono che, una volta metabolizzato lo shock della Brexit, scongiurato il rischio Wilders in Olanda e Le Pen in Francia, per il rilancio dell’Europa si sia forse aperta una finestra di opportunità che sarebbe rischioso non sfruttare, soprattutto in una logica di contrasto allo scenario di nuove guerre commerciali e alla diffusione di populismi xenofobi e neo-sovranisti capaci di speculare su regressive pulsioni identitarie
*Il testo riprende l’Introduzione al numero monografico della “Rivista di Politica” (n. 2, aprile-giugno 2018) dedicato alla Francia (dopo l’elezione di Macron) e alla Germania (dopo la nascita del nuovo governo di coalizione guidato dalla Merkel). Il fascicolo, in uscita in questi giorni, è curato da Gabriele D’Ottavio e Michele Marchi e può essere ordinato direttamente sul sito dell’Istituto di Politica: http://www.istitutodipolitica.it/rivista/ultimo-numero/
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