di Federico Donelli
Le imminenti elezioni turche, fissate per il 24 giugno, sembrerebbero avere un esito pressoché scontato, con la vittoria dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan e l’apertura di una fase presidenziale che rappresenta una novità per la quasi centenaria storia della repubblica. Per la prima volta dopo il colpo di stato (2016) e la riforma costituzionale (2017) si terranno le elezioni presidenziali e contestualmente verranno eletti anche i membri del Parlamento. Il tutto in un momento in cui in Turchia vige lo stato d’emergenza rinnovato per la settima volta.
Approvata mediante referendum nell’aprile dello scorso anno, la riforma ha riconfigurato il sistema politico turco da una repubblica parlamentare ad un (semi)presidenzialismo sul modello francese. In altre parole, per la prima volta a seguito del voto l’ufficio della presidenza assumerà poteri esecutivi diretti. Nonostante nell’attuale clima politico, anestetizzato dalla lunga serie di arresti e restrizioni nei confronti dei partiti d’opposizione, dei media e della società civile, sia improbabile aspettarsi un risultato diverso da quello atteso, è altresì vero che possano manifestarsi dinamiche politiche inaspettate al punto da destare sorpresa. Al netto delle oggettive difficoltà, del rischio di brogli e dei molti vincoli imposti da un sistema illiberale tendente verso una forma di autoritarismo competitivo, si respira un’aria di cauto ottimismo tra le opposizioni, sensazione figlia di una solidarietà interpartitica tanto funzionale quanto fragile nei contenuti.
Comune a tutti i partiti vi è la condanna della gestione personalistica del potere da parte di Erdoğan e la promessa che, in caso di vittoria, venga revocato lo stato di emergenza e restituita centralità al parlamento. La nuova elegge elettorale ha favorito la formazione di due blocchi politici, riflesso dell’elevata polarizzazione a cui è stata sottoposta la società turca negli ultimi anni. Da una parte l’Alleanza presidenziale composta dal partito di Erdoğan AKP (Partito giustizia e sviluppo), dal nazionalista MHP (Partito del movimento nazionalista) e dall’ultranazionalista BPP (Partito di grande unità), dall’altra parte l’Alleanza della nazione coalizione elettorale che raggruppa i principali partiti d’opposizione il kemalista CHP (Partito repubblicano del popolo), la destra islamica del SP (Partito della felicità) e i due partiti di centro destra DP (Partito democratico) e il nuovo Partito İYİ (Partito buono). Esclusi dalle due coalizioni vi sono l’HDP (Partito democratico dei popoli), rappresentante sia delle componenti più laiche curde sia dei movimenti progressisti, e il partito ultranazionalista VP (Partito della patria) guidato da Doğu Perinçek. Se la prima coalizione si presenta unita nella scelta di candidare alla presidenza Erdoğan, l’Alleanza della nazione è divisa, presentando tanti candidati quanti i partiti che la compongono. Alle legislative, invece, la soglia di sbarramento al 10% non vale più per i soli partiti ma per le coalizioni, aspetto che potrebbe favorire l’alleanza alternativa all’attuale presidente.
Un aspetto che preme sottolineare è che i quasi cinquantanove milioni di turchi chiamati ad eleggere il futuro presidente della repubblica e i seicento parlamentari che comporranno la prossima Assemblea Nazionale, sono stati convocati alle urne quindici mesi prima della regolare scadenza elettorale prevista per novembre 2019. Dietro alla scelta del presidente della repubblica e leader AKP di correre al voto si celano diverse ragioni. La prima è dettata dalla volontà di prendere in contropiede gli avversari, chiamati ad organizzare la campagna elettorale in pochi mesi (aprile-giugno). La seconda deriva dalla volontà del presidente di capitalizzare il consenso crescente di cui godeva in aprile quando, facendo uscire allo scoperto l’alleato Devlet Bahçeli (MHP), lanciò l’ipotesi di voto anticipato.
La scelta di Erdoğan fu dettata dalla forte ondata di nazionalismo che seguì la liberazione o presa, dipende dalla prospettiva, da parte dell’esercito turco della provincia siriana di Afrin. L’uso del tempo passato (godeva) non è casuale. Infatti, da allora, la popolarità di Erdoğan e del governo guidato dal fidato Binali Yıldırım è gradualmente diminuita sotto colpi non tanto delle milizie curde siriane (YPG) il cui ripiegamento appare difficilmente invertibile, complici le pressioni di Washington, quanto dal rapido crollo della lira turca e dal conseguente aumento dell’inflazione. Le performance economiche del paese hanno costituito per l’AKP, e in particolare Erdoğan, un volano per aumentare il consenso elettorale. Motivo per cui il rallentamento degli ultimi anni e lo spettro della ‘bolla’, legata soprattutto al settore edilizio immobiliare, hanno fatto suonare più di un campanello d’allarme per una delle economie della regione più esposte ai rischi dell’instabilità finanziaria.
Detto questo, stando alle intenzioni di voto raccolte dagli ultimi sondaggi, la partita elettorale sarà giocata da quattro attori principali: Erdoğan (48,5%), Muharrem İnce (22,5%), Meral Akşener (11,5%) e Selahattin Demirtaş (9%). La dirigenza dei partiti d’opposizione si sta attivando per trovare una convergenza attorno al nome dello sfidante di Erdoğan in caso di ballottaggio, assai probabile visto che difficilmente l’attuale presidente raggiungerà il (50% +1) al primo turno. Tuttavia gli sforzi delle élite potrebbero non essere premiati dal comportamento al voto di un elettorato estremamente eterogeneo e che vede al suo interno anime diametralmente opposte. L’ipotesi ballottaggio fa emergere più di un elemento di interesse per gli osservatori dell’orizzonte politico turco e fornisce una spiegazione aggiuntiva della scelta dell’AKP di anticipare le elezioni politiche.
Da una parte la decisione del CHP, storico rivale dell’AKP, di candidare İnce anziché il leader del partito Kemal Kılıçdaroğlu può essere interpretata in due modi. Il primo è legato alla figura stessa di İnce, ottimo comunicatore, di formazione sunnita moderata, che è riuscito a guadagnare popolarità negli ultimi due anni criticando non solo le politiche governative ma anche l’atteggiamento giudicato troppo passivo del proprio partito. Il candidato del CHP, inoltre, durante la campagna elettorale e in contrasto con la tradizionale agenda del partito, ha provato a rompere uno dei grandi tabù del partito kemalista, ossia la questione curda, non più negata ma elevata a problematica politica e come tale da affrontare seguendo le tre direttrici barış (pace), büyüme (crescita economica) e bölüşümde adalet (equa distribuzione). In secondo luogo è ipotizzabile che Kılıçdaroğlu, conscio del rischio di un’altra débâcle elettorale, abbia deciso di evitare una candidatura che, in caso di fallimento, avrebbe portato al suo definitivo tramonto politico. Allo stesso tempo, supportando İnce nella difficile campagna contro il vincitore designato Erdogan, il leader del CHP potrebbe aver trovato un modo per ridimensionare un potenziale competitor alla futura guida del partito.
Un secondo elemento di interesse è rappresentato dalla figura di Meral Akşener, la vera alternativa politica ad Erdoğan. La speranza condivisa da buona parte dell’opposizione è che, qualora si avverasse l’ipotesi del ballottaggio, fosse proprio Akşener, già ribattezzata in un articolo del TIME la ‘lady di ferro turca’, a contendersi la presidenza. Fuoriuscita dal MHP a causa della scelta di Bahçeli di supportare Erdoğan durante la campagna referendaria del 2017, Akşener ha fondato un proprio partito di centro-destra liberale, l’İYİ Partisi. In pochi mesi l’İYİ Partisi ha visto aumentare il proprio seguito, attirando a sé sia i conservatori delusi dalla svolta autocratica e sovranista di Erdoğan, che guardano ad Akşener come la figura in grado di riportare la Turchia al decennio d’oro AKP (2002-11), sia i molti nazionalisti laici dell’CHP e dell’MHP che vedono nella ‘lady di ferro’ l’unica in grado di porre un freno al dominio AKP.
La preoccupazione di Erdoğan per la discesa in campo di Akşener, come dimostra la campagna denigratoria dei media filogovernativi, è giustificata dal fatto che a medio e lungo termine l’İYİ Partisi potrebbe rappresentare un’alternativa concreta all’AKP, ponendosi come catch-all party (partito pigliatutto). Il dato politico più interessante dell’ascesa di Akşener così come della candidatura di İnce consiste nel progressivo slittamento verso destra di tutti i principali partiti politici turchi; come se, per cercare di contrastare Erdoğan lo si dovesse sfidare sul suo stesso terreno. Se molto del futuro politico della Turchia passerà dall’esito elettorale e in particolare dai risultati ottenuti dall’İYİ Partisi, altrettanto dipenderà dall’HDP, partito progressista di forte ispirazione e presenza curda, il cui candidato alla presidenza Demirtaş, così come una fitta schiera di dirigenti di partito, sono obbligati ad una campagna elettorale portata faticosamente avanti dal regime detentivo.
L’inaspettato successo elettorale dell’HDP nel giugno 2015 aprì una fase di profonda crisi nell’esecutivo AKP e spinse l’allora Primo Ministro Ahmet Davutoğlu a indire nuove elezioni in un clima di generale instabilità aggravato da una serie di attentati terroristici. Sarà soprattutto nell’ambito delle elezioni legislative che il risultato ottenuto dall’HDP dovrà essere monitorato e le conseguenze valutate. Qualora l’HDP non dovesse superare la soglia di sbarramento, la coalizione AKP-MHP godrebbe verosimilmente di una maggioranza forte; se, al contrario, il partito di Demirtaş dovesse entrare in Parlamento, l’eventuale nuova presidenza Erdoğan inizierebbe senza una solida maggioranza.
Lo stallo che deriverebbe dal verificarsi di questa seconda ipotesi sarebbe tale da portare con grande probabilità a nuove elezioni, ancora una volta sia legislative che presidenziali, già in autunno. Se si verificasse tale scenario, in ultima analisi, risulterà fondamentale capire chi, tra İnce ed Akşener saprà aggiudicarsi la sfida interna alle opposizioni, e, soprattutto, chi tra i due leader dei partiti di opposizione, entrambi di formazione kemalista, sarà in grado di conquistare la fiducia dell’elettorato curdo (18%).
Federico Donelli è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Genova, già docente di Politica Estera Comparata presso la Şehir University di Istanbul. Le sue ricerche riguardano le Relazioni Internazionali del Medio Oriente e la politica della Turchia moderna con una particolare attenzione alla politica estera. Ha recentemente pubblicato con LeMonnier-Mondadori il volume “Islam e pluralismo”. Quest’articolo appare in contemporanea anche su “Open Luiss” (http://open.luiss.it).
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