di Marco Gervasoni
Tutti in allarme per una frase di Davide Casaleggio a proposito del Parlamento e nessuno, a parte Alessandro Campi sul «Messaggero » e Giovanni Guzzetta intervistato dalla «Verità», che si chieda quali siano i poteri delle Camere oggi. E se la democrazia parlamentare l’avessimo già superata senza essercene accorti? Di certo una quota non piccola di potere e di senso al Legislativo se l’è portato via quello che si chiama «governo dei giudici».
Con tale termine non intendiamo, contrariamente a quanto si è creduto a lungo in Italia, il potere della magistratura inquirente, quanto quello della Corti, che possono sospendere e persino impedire una decisione del governo. Un esempio recentissimo: il blocco, imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), dello sgombero di un gigantesco campo Rom della capitale, mentre qualche giorno prima la stessa corte era finita sui giornali per avere respinto un ricorso dei pensionati contro un decreto sulle perequazioni delle pensioni. No ai pensionati, probabilmente tutti italiani, sì ai Rom, è l’impressione del cittadino comune. Impressione fugace, ma in buona sostanza fondata.
La Cedu però è mal tollerata un po’ ovunque. Per quanto quella di Strasburgo non appartenga, diversamente dalla Corte di giustizia europea, sita in Lussemburgo, all’Unione europea, la liberazione dalle sue sentenze è stato uno dei cavalli di battaglia dei Brexiters durante la campagna referendaria e ancora oggi è questione su cui si accapigliano le diverse versioni di exit del Regno Unito: quella più soft prevede di mantenere la legislazione dell’Uk all’interno della Corte, di cui del resto fanno parte anche paesi come la Russia: proposta sgradita ai Brexiters, che vi vedono giustamente una pesante limitazione della sovranità – senza dire degli inghippi prodotti dall’incontro tra il diritto consuetudinario inglese e quello continentale.
Se Londra piange, Parigi non ride. Lì la legislazione ha dovuto adeguarsi recentemente alle sentenze di un’altra corte, perlomeno questa nazionale, il Conseil constitutionel, che ha dichiarato legittima e perciò non perseguibile l’attività di «passeur» di frontiera, purché non a scopo di lucro. Mettendo così un macigno sopra il pacchetto di leggi sull’immigrazione appena approvate dal parlamento.
Il Conseil è stato creato nel 1958, con la Costituzione della V Repubblica, per la prima volta nella storia francese: era infatti assente in quelle precedenti perché le decisioni della «volontà popolare» rappresentata dal Parlamento non dovevano essere limitate da alcun organo, soprattutto se non elettivo.
Figurarsi però se De Gaulle, che faceva coincidere la «volontà popolare» con quella del capo democraticamente eletto, voleva sottomettersi ad un organo che ne frenasse il potere; il conseil, composto in larga parte da membri nominati dal presidente e dal governo, e solo una minoranza dal parlamento, doveva limitarsi al controllo di costituzionalità.
Aveva cioè poteri molto più ristretti nella nostra Corte costituzionale, che non in ogni caso cominciò a lavorare quasi dieci anni dopo il varo della Costituzione, perché De Gasperi e la Dc poco gradivano trovarsi di fronte un contro-potere che magari mettesse in discussione le scelte in politica estera.
In realtà le due corti, francese e italiana, per molti anni rimasero all’interno del perimetro iniziale per le quali erano state pensate. Poi è cominciata l’era del governo dei giudici.
Le Gouvernement des juges et la lutte contre la legislation sociale aux Etats-Unis è il titolo di un libro pubblicato nel 1921 dal grande giurista francese Edouard Lambert, uno dei padri del diritto comparato. Non era un caso che Lambert guardasse agli Usa, dove la Suprema corte svolgeva già da tempo funzioni di governo, spesso in opposizione al Presidente e alle Camere. Forse fin dall’inizio, se già nel 1803 il presidente Thomas Jefferson aveva scritto che «fare dei giudici l’ultimo arbitro delle questioni costituzionali è una dottrina molto pericolosa che ci pone sotto il dispotismo di una oligarchia ».
E Lambert non aveva ancora visto i furibondi scontri tra il presidente Franklin Delano Roosevelt e la Suprema Corte, ostile alle sue riforme economiche, fino ai tentativi del presidente, nel 1937, di modificare le regole di nomina dei giudici – tentativi che gli valsero paragoni con Mussolini e Hitler. Il giudizio di Lambert sul potere dei giudizi, cioè sulla tendenza delle corti (in queso caso costituzionale) «a diventare potere giudiziario che sottomette quello legislativo ed esecutivo» era assai negativo, ma la sua diagnosi ottimistica; il «contagio» non avrebbe toccato l’Europa erede del diritto romano.
Invece il contagio è arrivato, eccome. Ormai le Corti, poco importa che siano « nazionali » o «europee», fungono da potere parallelo e alternativo a quello politico, e anzi a lui superiore in nome del carattere non partigiano, astratto, «oggettivo» della legge.
Sono molte le ragioni di questa trasformazione, e sono prevalentemente sociali. Quelle occidentali ormai sono infatti società composte da individui isolati, in comunità evanescenti, e sono individui che richiedono sempre più diritti, secondo una nozione che si è estesa rispetto al significato originario, fino a coinvolgere l’intera sfera sociale. La stessa politica si è trasformata in un’attività il cui obiettivo è dispensare ed elargire i diritti, sempre più numerosi, particolari e diversi. Così facendo però la politica ha perso non solo universalità ma si è sottomessa all’unica autorità che, in una società dei diritti, ha il compito di interpretarli: i giudici. Che hanno conquistato un carattere e una legittimità nuovi, sono diventati detentori e portatori di virtù, proprio perché, rispetto ai politici, affermano di parlare e di agire in nome della universalità (del diritto).
E’ evidente che abbiamo almeno tre problemi. Primo problema. Mentre il potere legislativo ed esecutivo è legittimato dal voto, e sottoposto a continuo e frequente controllo, i giudici sono selezionati sì dai governi, quelli della Cedu, e dalle Camere e dal Quirinale quelli della Corte costituzionale, ma una volta nominati i loro membri non rispondono più a nessun tipo di controllo.
Secondo problema; in caso di conflitto tra esecutivo/legislativo e giudiziario, ci troviamo di fronte al contrasto tra chi è stato voluto da cittadini e una «ristretta oligarchia» per dirla con Thomas Jefferson. E di fronte al conflitto tra democrazia e oligarchia, stanno crescendo i simpatizzanti della seconda.
Se si pensa alle richieste di un referendum «riparatore» in UK, alle spinte all’impeachment di Trump anche se non ve ne sono le condizioni, per non parlare dell’Italia, oppure al successo di libri come quello di Jason Brennan (Contro la democrazia, Luiss Edizioni), ormai molti credono, soprattuto nei pressi delle «élite », che le decisioni degli elettori siano poco sagge e mature; e che perciò debbano prevalere autorità «alte», non sottomesse alla volatilità e alla brutalità del suffragio universale, che decidano per il bene di tutti.
E’ il ritorno del mito del Guardiano platonico. E il governo dei giudici, con il modo di funzionamento di molte corti, oggi va proprio nella direzione di un possibile governo dei Guardiani.
Terzo problema; quando la politica, cioè il governo cerca di intervenire sulle Corti, queste si difendono strenuamente, gridando alla dittatura e invocando la solidarietà di altre corti – e dei media. Il caso polacco è rappresentativo. Per come infatti la vicenda viene raccontata dai giornali occidentali, parrebbe che il cattivissimo e dispotico governo del Pis voglia calcare sotto il suo tallone il potere giudiziario e quello della Corte suprema, peraltro regolate da procedure introdotte in tempi piuttosto recenti. Mentre in realtà il governo legittimamente eletto vuole decidere senza dover essere frenato da un potere non elettivo.
Come ha scritto il sociologo Mathieu Bock-Coté, autore di Le multiculturalisme come religion politique, un eccellente volume contro la società individualista narcisista, di cui il governo dei giudici è lo specchio: «il governo dei giudici corrisponde a una forma di regime post-democratico che riposa su un trasferimento di sovranità dissimulata dietro l’apparenza della continuità istituzionale. Il teatro elettorale è mantenuto ma gli eletti dispongono di un potere sempre più fittizio. Il governo dei giudici non è tanto una deviazione dalla democrazia liberale: ne è piuttosto il suo inveramento. In nome dell’espansione senza fine della logica dei diritti, il governo dei giudici condanna la possibilità per un popolo di autodeterminarsi. Programma l’impotenza della politica, mascherata in forma superiore di umanismo » (M. Bock -Coté, La réinvention du despotisme éclairé, «Le Figaro», 10 luglio 2018)
Cosa si può fare? Ahinoi poco o nulla. Il governo dei giudici è un potere burocratico, che tende come tutte le burocrazie ad auto-riprodursi e ad allargarsi. Fino a quando però il potere costituente che risiede nei popoli, e per sua natura piuttosto allergico alle regole, si stancherà di vedere i rappresentanti che ha eletto frenati da istituzioni guidate da uomini (e donne) invisibili. A quel punto si arriverà probabilmente a una lesione e una frattura extra legem, che rischierà di portarsi via anche il rule of law.
*Articolo apparso su ‘Atlantico. Rivista di analisi politica, economia e geopolitica’ © http://www.atlanticoquotidiano.it/
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