di Danilo Breschi
Concludendosi, l’anno appena trascorso ha voluto trattenere con sé anche Antonio Zanfarino (nella foto). E il 2019 inizia con un maestro in meno. Se ne va con lui la memoria più lucida e minuziosa, doviziosa di aneddoti, devota e appassionata, di quella importante realtà culturale che è stata la “Cesare Alfieri”, la facoltà fiorentina di scienze politiche. La vita universitaria di Zanfarino, prima come studente e poi come docente, in particolare di Storia delle dottrine politiche e di Filosofia politica, ha sostanzialmente coinciso con le vicende di quella istituzione per l’intera seconda metà del Novecento. Ne era dunque la memoria storica vivente, probabilmente più di ogni altro, al pari di Luigi Lotti, scomparso nel marzo del 2016.
Se maestro è colui che, per usare le parole di George Steiner, incarna la consapevolezza che «insegnare, e insegnare bene, significa essere complici di possibilità trascendenti», ebbene Antonio Zanfarino è stato un vero maestro. Anzitutto nello stile, di insegnante e di uomo tanto mite quanto caloroso e generoso nei consigli e negli incoraggiamenti. Sapeva farsi quasi fraterno o paterno, a seconda dell’età di coloro che sentiva spiriti a sé affini. Magari «spiriti esitanti», come Tzvetan Todorov ebbe a definire Benjamin Constant, prediligendolo rispetto ai tipi perentori e assertivi, sicuri di sé, o apparentemente tali, come un Nietzsche. E, non a caso, proprio Constant fu uno degli autori più amati, letti e meditati da Zanfarino, il quale, a sua volta, seppe appassionare alla vita e all’opera del pensatore di Losanna intere generazioni di studenti. Li avvicinò in tal modo ad un tipo di liberalismo intrinsecamente aperto al costituzionalismo, inteso non solo come teoria e pratica del potere limitato, ma anche come un tentativo umile ma fermo di «antropologia», ossia una «visione complessiva del mondo umano e sociale» (Libertà moderna e cultura costituzionale, Polistampa, Firenze 2017, p. 225).
Zanfarino ci ha insegnato la «complessità antropologica della libertà», che indagava con quel suo inconfondibile stile che, a prima vista, a noi studenti del primo anno sembrava l’eterna oscillazione tra gli opposti estremismi. E così era, proprio a significare l’esitazione di una ricerca tanto umile ed onesta quanto sicura nel fatto che la giusta misura è il massimo bene e che questo si trova immancabilmente nella tensione tra i poli estremi. La polarizzazione e la radicalizzazione erano per lui sintomi di uno squilibrio in quell’organismo assai complicato e delicatissimo che è l’essere umano, composto di corpo e qualcosa che potremmo chiamare spirito o anima, comunque anelito al trascendimento di sé, oltre il proprio singolare sé. Il suo, insomma, non era l’invito ad una banale mediazione, statica e inerte, dunque sterile, infine impraticabile. Era piuttosto la consapevolezza che la politica va pensata e praticata come arte del governo di pulsioni sovente contraddittorie e ancor più spesso divaricanti, fino al punto di rischiare lo squartamento della condizione umana, tanto individuale quanto collettiva.
A questa lezione di metodo si univa una lezione di contenuto: la modernità è un dato di fatto irremovibile, in quanto è il prodotto storico, dunque sempre in trasformazione, ora evolutiva ora involutiva, del pensare e dell’agire umano. Negare la modernità avrebbe significato, e significherebbe, negare l’attitudine dello spirito umano, e non solo europeo e occidentale. Di questo Zanfarino era convinto, e per questo motivo riteneva la modernità qualcosa da non adulare né denigrare, semmai da riformare secondo quell’ideale di perfezionamento, o perfettibilità, che aveva anzitutto appreso dagli autori del liberalismo francese immediatamente postrivoluzionario. Autori pertanto consapevoli dei pregi e dei difetti di un illuminismo, moto di idee e pratiche senz’altro positive, ma che andava corretto alla luce di una concezione della storia e della natura umana che insegnasse a vedere il lato tragico dell’umano senza subirne il fascino. Perciò scriveva in conclusione del suo libro più recente: «senza perdere il senso della relatività come condizione del sapere critico, del rispetto, della tolleranza, la cultura costituzionale non confonde la relatività con il relativismo; e senza professare ottimismi di maniera rifiuta visioni disperanti della storia» (ivi, p. 273). Parole attuali più che mai, che indicano sinteticamente un’impostazione di fondo da continuare a proporre come antidoto a non pochi dei mali delle odierne società occidentali.
Le due lezioni, di metodo e di contenuto, erano in fondo le due facce di una medesima medaglia, i due lati di una stessa postura intellettuale, che resta il suo lascito maggiore. Voglio però ancora accennare ad un altro nodo della sua riflessione filosofica e politica, che ritengo fosse per lui cruciale sin da giovane, probabile retaggio constantiano, e che si fosse particolarmente accentuato nell’ultima parte della sua vita. Mi riferisco al rapporto tra religione e laicità, che per lui non poteva che essere di tipo dialettico. Punto di partenza era, come sempre, la condizione umana, per la quale riteneva che Kant avesse trovato la formula più felicemente e profondamente riassuntiva: l’«insocievole socievolezza». La considerava «espressione veritiera della realtà coesistenziale, condizione del libero ordinarsi di idee e di azioni, possibilità di distinzione morale, strumento di sviluppo materiale e spirituale, opposizione ad aggregazioni sociolatriche e statolatriche e a dissociazioni e regressioni singolaristiche ed egolatriche» (ivi, pp. 55-57).
Troviamo qui un esempio dello stile di scrittura di Zanfarino, che di primo acchito intimoriva lo studente al suo primo esame per il tono altisonante di espressioni che racchiudevano mille significati ulteriori. Eppure, la lettura e lo studio della sua scrittura era un esercizio utilissimo a chi avesse voluto continuare a coltivare la filosofia a fianco delle altre discipline impartite in Facoltà, ovvero le scienze politiche, storiche e sociali. Per lo studente che si fosse fatto lettore paziente il risultato era l’acquisizione di una completezza di visione circa la condizione dell’uomo in società, di fronte al potere politico e alle sue istituzioni. E c’era la possibilità, compulsando quelle pagine, di sfiorare la letteratura, il cui sapere era stata sicura fonte di fascinazione e di arricchimento per Zanfarino. Fonte anch’essa trasmessa a noi studenti.
C’è un libro in cui, a mio avviso, si mostra meglio che altrove il risultato cristallino a cui poteva condurre quella lotta titanica che egli ingaggiava quotidianamente con il pensiero per distillarne con millimetrica precisione figure geometriche di senso. Mi riferisco a Mistero e libertà, edito da Le Monnier nel 2009. È un libro la cui lettura ci rivela con pieno nitore la profonda sensibilità etica e spirituale di Zanfarino. Un testo che meglio di tanti altri fa comprendere in quale stretta e reciprocamente feconda relazione non possano non stare religione e laicità.
Se la condizione umana si muove dentro la tensione propulsiva tra il socievole e l’insocievole, questo movimento che è vita si deve al senso del mistero che egli giudicava immanente alle singole esistenze così come alle strutture collettive. Lo avrebbe ribadito nel 2017 con una frase fulminante ed evocativa, contenuto in Libertà moderna e cultura costituzionale in un capitolo dedicato al Mistero esistenziale e sociale: «Gli individui sono portatori di mistero, accettano un’aliquota di insondabile nella propria esistenza, riconoscono un inizio non soggettivo della loro soggettività, non volontaristico del loro volere, non negoziale delle loro pattuizioni, non storico della loro storicità, non sociale della loro socialità» (ivi, p. 60). E la cosa più bella e paradossale, bella proprio perché subito si mostra come solo apparentemente paradossale, è che proprio il mistero che ci impregna e ci circonda svolge una funzione socializzante in quanto ci rende accomunati e di conseguenza comunicanti. Accomunati dalla finitezza e dalle limitazioni, comunicanti perché la presa di coscienza di esse può spingerci al richiamo verso l’infinito e l’illimitato, e dal visibile potrebbe nascere anche la nostalgia dell’invisibile. La libertà cela il proprio ancoraggio nella dialettica tra cielo e terra, dove nessuno dei due termini è sussunto nell’altro.
A questo punto si tratta di scegliere quale reazione assecondare ad una simile presa di coscienza. La tentazione della tracotanza antropocentrica, tale da recidere ogni anelito alla trascendenza e al senso del limite e della misura, è sempre dietro l’angolo. Zanfarino metteva in guardia contro «le forme più razionalizzate o ideologizzate del laicismo» (Mistero e libertà, cit., p. 17), a cui contrapponeva una laicità umanistica che era tratto costitutivo della razionalità occidentale. Si preoccupava che quest’ultima desse l’impressione di «abbandonare la sua tradizionale alleanza con la fede e i suoi riferimenti alle ispirazioni e alle protezioni dei modelli cristiani» (ivi, p. 15). Nel suo breve ma denso trattato Zanfarino invitava ad un nuovo dialogo cultura laica e cultura religiosa, e quella cristiana e cattolica in particolare (frequenti i richiami ad un nuovo e diverso impegno della Chiesa). Convinto che una politica di libertà scaturisce da una morale di libertà, egli non poteva non suggerire e sottolineare quanto alimento ideale e pratico il liberalismo potesse trarre dal confronto con il mistero e il trascendente. È probabilmente, la sua, la riproposta adeguatamente aggiornata di una collaborazione tra sensibilità e culture filosofiche e politiche che contraddistinsero la breve ma intensa stagione della ricostruzione europea postbellica, coincidente con la giovinezza di un diciottenne Zanfarino che da Sassari si trasferiva a Firenze, ove crebbe e maturò come studente e quindi assistente universitario.
Scriveva nel 2009: «È dovere della laicità dichiarare quale dignità etica definisce la sua antropologia, quale universalità sostiene il suo pensiero, quali obbligazioni storiche caratterizzano le sue azioni, quali relazioni e mediazioni tengono insieme i valori e i bisogni dell’esistere. […] Ci sono ragioni della fede che la laicità non conosce, ragioni della laicità che la fede non considera, ma anche ragioni laiche che l’integralismo laicista respinge e accomuna nell’indiscriminata avversione alla trascendenza. Questo laicismo si oppone alla stessa natura della civiltà laica e il suo risentimento contro la metafisica si confonde con l’indignazione verso le incomplete, discontinue, problematiche, parziali secolarizzazioni di una laicità critica consapevole dei limiti della ragione e dell’azione e restia a sciogliere gli enigmi esistenziali e sociali con enfasi ideologiche e insensibilità etiche» (ivi, pp. 49-50). E chiudeva un più che mai pensoso paragrafo dedicato ai rapporti tra ontologia e antropologia con la seguente dichiarazione: «Sussiste quindi tra spirito religioso e laico una qualche espressa o inespressa intesa etica e storica per un’equa divisione del lavoro spirituale all’interno di una civiltà comune che ha profittato delle convergenze e divergenze e che, pur avendo raggiunto una certa sua sovranità autonoma, non può prescindere dagli apporti di queste sue originarie e permanenti parti costitutive e prospettare accettabili e praticabili alternative per una società post-secolare e post-metafisica, post-laica e post-religiosa» (ivi, p. 52).
Si trattava, e si tratta, di incentivare «mutui apprendimenti» per favorire la coesistenza di valori dissimili, ma niente affatto ostili. Il pluralismo è un principio che esige una morale e un’etica, dunque una condotta individuale e collettiva, privata e pubblica, che siano illuminate dall’antica virtù della prudenza, la phronesis aristotelica, intesa non tanto come cautela o moderazione, bensì – ha ricordato di recente un altro filosofo sardo, Remo Bodei – come «la forma più alta di saggezza pratica, quale capacità di prendere le migliori decisioni in situazioni concrete, applicando criteri generali a casi particolari». E di fronte alla crisi contemporanea della trascendenza Zanfarino ne riscontrava una anche ai danni dell’immanenza, così da chiosare nei seguenti termini:
Le richiese di ausilio spirituale rivolte alla fede hanno una rilevanza morale se riportano lo spirito laico alla consapevolezza delle sue responsabilità, non se si servono ipocritamente del divino per nascondere e aggirare le difficoltà storiche della modernità. È più dignitoso che religiosità e laicità adempiano ciascuna ai propri obblighi senza confondere i loro ruoli e adoperandosi affinché il loro dialogo sia animato non da calcoli politici e convenienze pratiche contingenti, ma da un’autentica esigenza umana e metafisica di rendere credibili le loro moralità rispettive e di farle cooperare alla ricerca del bene comune (ivi, p. 56).
La pagina di Zanfarino richiede quel tanto di lentezza nella lettura che è sinonimo di concentrazione e di attenzione, attributi psicologici e morali che renderebbero il giusto onore alla fatica di un concetto cesellato e smussato dall’autore in ogni suo più recondito angolo. Proprio quell’attenzione che è una qualità umana sempre più bistrattata, e che Simone Weil descrisse in una lettera del 1942 all’amico e poeta Joë Bousquet con parole ineguagliabili: «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione». Con parole limpide ed essenziali Simone Weil colse a pieno la perfetta coincidenza che esiste tra attenzione e generosità. Di questa virtù, una e bina, Antonio Zanfarino seppe fare esercizio quotidiano per sé e dono elargito a chi voleva e sapeva ascoltarlo. Ci mancherà.
Lascia un commento