di Alessandro Campi
“Pinuccio Tatarella. Passione e intelligenza al servizio dell’Italia”: è il titolo del volume appena pubblicato dall’editore Giubilei nel ventennale dalla scomparsa (avvenuta l’8 febbraio 1999) dell’uomo politico che fu tra i fondatori di Alleanza nazionale e una delle figure chiave della destra politica italiana nel secondo dopoguerra. Il volume comprende articoli e testimonianze, tra gli altri, di Pietrangelo Buttafuoco, Corrado Ocone, Giuseppe Parlato, Giuseppe Valditara, Stefano Folli, Francesco Verderami, Antonio Polito, Gennaro Sangiuliano, Marcello Veneziani, Massimo D’Alema, Salvatore Merlo e Luciano Violante (oltre agli interventi di molti esponenti politici delle varie aree politiche). Pubblichiamo in questa pagina lo scritto apparso nel volume a firma di Alessandro Campi.
C’è una foto di Giuseppe Tatarella candidato alle elezioni politiche del 1968 (ma in quell’occasione non venne eletto) dalla quale si può partire per cercare di spiegarne la peculiare personalità politica (a sinistra del testo). Lo ritrae sorridente, con un microfono in mano, accanto ad un’auto che sul tettuccio – come si usava in un’epoca in cui la comunicazione politica era ancora artigianale e basata sul volontariato dei singoli candidati – montava un cartello propagandistico recante quest’immaginifica scritta: “Contro la corruzione D.D.T”. Sigla che richiamava il micidiale insetticida, grazie al quale metaforicamente spazzare via gli insetti della partitocrazia, ma che stava anche ad indicare le iniziali di tre candidati: Di Crollalanza, De Marzio, Tatarella. Appunto, D.D.T.
Si tratta di un documento d’epoca che sollecita due riflessioni. La prima, più effimera, riguarda il linguaggio politico d’un partito d’opposizione radicale quale era all’epoca il Msi. Oggi c’è la tendenza a lamentare lo scadimento del costume politico e l’imbarbarimento della dialettica tra avversari. Ma è una lamentazione da educande, se solo si ha una pallida conoscenza di cosa sia stata la lotta politica nell’Italia repubblicana. Non c’era la capacità amplificatrice dei social media attuali, con la loro tendenza a banalizzare i messaggi sino all’estremo della violenza. Ma c’erano il bianco e il nero, i buoni e i cattivi, il manicheismo ideologico che portava appunto a raffigurare il ‘nemico’ politico con un parassita da neutralizzare con un agente chimico. Ci sarà anche stata, nel caso specifico di questa foto, una certa dose di goliardia e di allegra irriverenza contro il blocco di potere, essenzialmente democristiano, che i missini dell’epoca contestavano. Ma in occasione degli appuntamenti elettorali non si andava tanto per il sottile, sul piano del linguaggio e degli slogan: le divisioni tra schieramenti erano politico-culturali, ma anche antropologiche. Il che non impediva il permanere di un fondo di cavalleria e rispetto, ma nel quadro – giova ricordarlo – di un’assoluta alterità e distanza ideologica che autorizzava il ricorso all’estremismo delle parole (e non solo).
La seconda riflessione, meno espressionistica e più direttamente riferita alla storia politica di Pinuccio Tatarella, riguarda la genealogia socio-culturale e politica che si ricava dall’associazione gerarchico-cronologica di quei tre nomi. Una filiera, sperando che il termine non suoni inappropriato, che fa capire bene quale sia stata la peculiarità della destra pugliese nel quadro del neofascismo italiano. E che fa capire perché Tatarella, quando quest’ultimo si è dissolto e disgregato, intorno alla data simbolica del 1994, sia potuto diventare l’ispiratore di una svolta politica – quella incarnata dalla sigla di Alleanza nazionale – che ha avuto tanti aspetti contradditori (oltre ad essersi esaurita in malo modo dopo aver acceso molte speranze), ma che un merito grande l’ha comunque avuto: quello di farla finita, per essere un sentimento paralizzante e antistorico, col nostalgismo politico rivolto alla memoria del Duce e al tragico vitalismo del fascismo di Salò.
Nella destra pugliese certe mitologie romantiche – la “bella morte”, il culto sepolcrale per i caduti, la fiamma ardente da tenere sempre viva, lo spirito del combattentismo divenuto fatalmente reducismo col passare degli anni – non hanno mai attecchito. Certo per ragioni banalmente territoriali, essendo stata quella zona d’Italia, dopo la caduta del fascismo, parte integrante del Regno del sud, lontana dunque dalle zone dove tra il 1943-45 si consumò la “guerra civile” tra fascisti repubblicani e partigiani. Ma anche perché la continuità storico-ideale tra fascismo e neofascismo in Puglia fu incarnata, come è noto, da un personaggio peculiare e a suo modo leggendario quale appunto Araldo di Crollalanza (1892–1986): la prima sigla della triade. A sua volta reduce della Rsi, ma soprattutto esponente di quella componente del fascismo-regime più legata al mito dell’Italia da edificare su nuove basi architettoniche, economiche e sociali, attraverso il lavoro dei singoli e la volontà progettuale dello Stato. La sua biografia è nota: giovane capo dello squadrismo pugliese, poi podestà di Bari, sottosegretario e ministro dei lavori pubblici, presidente dell’Opera nazionale combattenti, presidente della Commissione Lavori pubblici della Camera dei fasci e delle corporazioni; e in questi diversi ruoli molto impegnato nel risanamento urbano (a partire proprio da Bari), nelle grandi bonifiche dell’Agro Pontino, nella gestione delle grandi emergenze (il terremoto dell’Irpinia e del Vulture del 1930) e nell’edificazione di Littoria (Latina), Sabaudia e Pontinia. Il suo fu un fascismo, potremmo dire, pragmatico e fattivo, pur nell’osservanza dell’ortodossia ideologica. Il che spiega come anche nel dopoguerra, senatore della Repubblica per ben sette legislature (ininterrottamente dal 1953 all’anno della morte), Di Crollalanza abbia avuto poca indulgenza per il settarismo ideologico dei missini rimasti rivoluzionari e contestatori della democrazia e abbia piuttosto inclinato verso una destra con una forte identità e coscienza di sé ma non chiusa al mondo e prigioniera dei fantasmi del passato.
La stessa visione politica propria dell’altro grande esponente del neofascismo pugliese (rectius: della destra post-fascista pugliese) del secondo dopoguerra: Ernesto De Marzio (1910-1995). Anch’egli proveniente dai ranghi del regime mussoliniano, ma su posizioni anti-romantiche e di classicismo nazional-cattolico (come il suo grande amico e sodale Nicola Francesco Cimmino, il letterato con cui fondò nel 1961 il Centro di Vita Italiana). De Marzio nel Msi ricoprì tutte le cariche più importanti, salvo la segreteria. E fu sempre il fautore di una destra dialogante e aperta, moderata e compiutamente democratica. Esattamente le basi che lo portarono nel 1976, in polemica insanabile con l’almirantismo e il suo ambiguo oscillare tra lotta e doppiopetto, allo strappo di Democrazia nazionale. Un fallimento politico, certificato da un elettorato all’epoca ancora prigioniero di una mistica fascisteggiante, che aveva però alla base un’intuizione anticipatrice: rompere con la logica, anche psicologicamente confortante, del ghetto, lasciare perdere le velleità di alternativa al sistema e di lotta ai valori repubblicani, smetterla con il culto sterile delle memorie e provare a inserirsi nella lotta politica nazionale da posizioni di moderatismo conservatore, provando a prendersi la base sociale che la Dc aveva impropriamente incamerato (quel che farà poi Berlusconi con la sua Forza Italia avendo però avuto dalla sua il vantaggio della scomparsa traumatica della Balena bianca).
Ecco, Pinuccio Tatarella, come semplificato dalla foto galeotta che abbiamo preso a pretesto di queste poche righe, era l’erede e il coerente prosecutore di questa visione della destra, che da pugliese (andrebbe anche ricordato, accanto al suo, il nome del brindisino Domenico Mennitti, altro seguace di De Marzio ed egualmente un modernizzatore post-fascista da posizioni di riformismo liberal-conservatore) divenne nazionale, dunque egemone, con lo scioglimento del vecchio Msi e la nascita del nuovo contenitore di An.
Di quest’ultima esperienza Tatarella è stato l’ispiratore, l’accompagnatore, il custode e il garante, sino alla morte prematura, che secondo leggenda sarebbe stata la causa diretta e inevitabile degli sbandamenti successivi di Gianfranco Fini, rimasto orfano del suo miglior consigliere. La verità è che la morte di Tatarella è stato anche un formidabile alibi per la classe dirigente di quel partito, che nel tributargli onori e ricordi ne ha però smarrito ben presto gli insegnamenti. Se Tatarella era per l’apertura, la mediazione e il dialogo, per il rinnovamento, per la creazione di una più vasta aggregazione dei moderati, coloro che avrebbero dovuto mettere in pratica questa visione hanno in realtà seguito altre e non sempre coerenti strade, spesso per semplice tornaconto personale: l’arroccamento oligarchico (mai partito fu più incapace di rinnovarsi al vertice quanto An); il cedimento allo spirito di mediazione (cosa diversa dallo spirito politico di compromesso); l’assoggettamento psicologico al dominus del centrodestra Berlusconi (mentre Tatarella lo trattava da alleato e dunque alla pari); lo scontro frontale con Berlusconi per ragioni più personal-caratteriali che politiche (come appunto capitò al Fini degli ultimi anni, laddove Tatarella avrebbe spiegato che i contrasti politici interni ad una stessa area, per quanto esasperati, hanno senso quando creano ricomposizioni e non fratture irreparabili che finiscono per danneggiare tutti); la rinuncia a qualunque sforzo progettuale, culturale o editoriale (il Msi scriveva, pensava ed elaborava quando era difficile trovare persino i mezzi materiali per farlo, mentre con An al potere la destra italiana raggiunse il grado zero della sua capacità di proposta culturale). Errori e sbagli che a furia di cumularsi hanno prodotto la scomparsa di quel mondo, e l’assorbimento di quel che ne resta entro il perimetro della Lega oggi sovranista e identitaria.
Sarebbero andate diversamente le cose con Tatarella vivo e politicamente attivo? E’ quello che non sapremo mai. Di sicuro una strada, sulla base di una formazione che veniva da lontano e d’indubbia coerenza anche culturale, lui l’ha tracciata con originalità, senza essere un teorico della politica, ma facendola attivamente. Colpa degli altri e di quelli che sono rimasti se le cose non sono poi andate per il verso giusto: invece di rimpiangerlo nelle commemorazioni e additarlo come maestro nelle articolesse, avrebbero fatto meglio ad applicarne silenziosamente i precetti e i consigli. Ma del senno di poi, le fosse sono piene. La destra italiana (quella di derivazione missina) è finita per sempre, tra diaspore, rancori, inettitudini e miserie personali. Anche se resta aperta la possibilità – che nella storia non si può mai escludere – che energie giovani e vergini, proprio a partire dalla lezione di Tatarella, facciano rivivere postumamente il suo progetto politico.
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