di Alessandro Campi
Oggi si celebra il Giorno del Ricordo, istituito con legge dello Stato nel marzo 2004 per commemorare le vittime italiane delle violenze consumatesi sul confine orientale tra il 1943 e il 1947: prima i rastrellamenti, le fucilazioni e gli ‘infoibamenti’ operati dai partigiani di Tito, poi l’esodo verso la madrepatria delle popolazioni istriano-fiumano-dalmate dopo che le terre dove abitavano divennero definitivamente parte dello stato jugoslavo comunista.
Dovrebbe essere un appuntamento nel segno del raccoglimento, della riflessione e del dialogo: del ricordo inteso come ricostruzione e spiegazione del passato. Puntualmente, sono invece arrivate le polemiche. Che nulla hanno a che fare con la storia di quegli eventi, ormai accertati a sufficienza, semmai con la tendenza a utilizzare quest’ultima per riproporre antiche divisioni politiche e per attizzarne di nuove in virtù di interessi solo contingenti. E’ l’uso politico-strumentale del passato, che si può biasimare ma purtroppo non impedire: stavolta sono stati ambienti dell’Anpi a battere la grancassa del revisionismo ideologico, a conferma di come l’associazionismo partigiano, scomparsi i veri combattenti e dunque venuta meno la sua funzione testimoniale, si sia ormai trasformato in un attore politico tra gli altri, che oggi parla degli immigrati e domani della crisi in Venezuela, con in più l’assurda pretesa di poter fare da guardino del pensiero.
Che dopo più di settant’anni da quei fatti ci sia ancora chi li neghi come inventati o manipolati, o li giustifichi alla stregua di una ‘normale’ rappresaglia per le violenze in precedenza commesse dal fascismo sugli slavi (una connessione causa-effetto che ieri il Presidente Mattarella ha recisamente contestato ricordando che l’anti-italianismo etnico si è accompagnato come causa di persecuzione all’antifascismo politico), dimostra anche quanto sia illusorio voler creare, nel corpo di una nazione storicamente fragile qual è l’Italia e che nella radicalità delle sue divisioni intestine ha forse il suo tratto identitario preminente, una memoria condivisa del passato. Lo si può fare sul piano delle celebrazioni pubblico-ufficiali, inevitabilmente portate alla retorica conciliatoria, ma le memorie, cariche come sono di elementi soggettivi, nonché sempre selettive, parziali e distorcenti, per definizione sono destinate a permanere divise se non inconciliabili. E non potendo eliminarle, conviene almeno rispettarle per ciò che sono: schegge di storia vissuta che il tempo fa inesorabilmente deperire.
Quando non si nega o si minimizza, si compensa e si compara: il che forse è anche peggio, perché ciò significa considerare più o meno significativa una tragedia in funzione delle proprie preferenze o ascendenze politiche, sino a stabilire un’insensata gerarchia della sofferenza umana. Chi ha massacrato più uomini, Stalin o Hitler? Esiste un male assoluto accanto ai mali relativi? Lager o foibe? Ma se una cosa abbiamo imparato dal Novecento è che la disumanità – se ci si mette dal punto di vista delle singole vittime – non è questione di numeri, ma d’intensità, specie quando essa nasce da un disegno politico in sé perverso e non dalla pazzia individuale. Senza contare che le brutalità imputabili a ideologie contrapposte non possono essere prese le une a giustificazione storica delle altre. Semmai si sommano e dovrebbero portare alla loro comune condanna.
Le foibe sono state per decenni un mito propagandistico della destra nazionale e un vuoto nella coscienza collettiva che la politica repubblicana e un vasto fronte intellettuale, quando ancora c’era chi assimilava il comunismo al progresso umano e ad un sogno di redenzione sociale, hanno colpevolmente alimentato. Poi è arrivato il tardivo ma pur sempre meritorio e necessario riconoscimento simbolico ad opera direttamente dello Stato: la ferita delle vittime e dei loro discendenti è stata lenita ma solo in parte si riusciti a trasformare il dramma vissuto da quella minoranza di italiani in un sentimento di dolore diffuso. La storiografia (cioè il racconto scientifico dei fatti) purtroppo non è la stessa cosa del senso storico comune (cioè la percezione che si ha del passato, o il modo con cui esso si radica nell’immaginario collettivo). Si aggiunga che finite le tensioni della guerra fredda, è anche iniziato il distacco dalla storia delle giovani generazioni, acuito dalle trasformazioni antropologiche prodotte dalle nuove tecnologie digitali: esse ormai vivono in un presente dilatato e il rapporto che hanno con il passato è al massimo sentimentale ed emotivo, privo di razionalità critica.
Ma c’è un altro problema: l’accumularsi di date celebrative ufficiali, istituite con l’intenzione di mantenere la memoria pubblica di alcune grandi tragedie collettive, invece di mantenere vivo il nostro legame con la storia, rischia paradossalmente di alimentare la tentazione dell’oblio. Possibile che quel poco di passato che ricordiamo è fatto solo di tragedie e orrori, di momenti di cui oggi possiamo solo vergognarci? Si capisce l’intento pedagogico di una simile impostazione: rammemorare per non ripetere. Ma attenti a non esagerare. Se la storia diventa solo colpa e vergogna se ne produce alla fine il rifiuto come racconto di una realtà insostenibile, o peggio ancora la condanna su basi moralistiche.
Riflettere sul passato anche fuori dalle ricorrenze ufficiali. Ricordarsi che nella storia il male è convissuto col bene. Adeguare la politica alle lezioni della storia, non la storia agli intessi della politica. Evitare le facili condanne postume e i giudizi storici sommari solo perché i nostri valori e ideali non sono quelli dei nostri antenati. Sono i semplici e buoni insegnamenti che fuori da ogni retorica o polemica, dovremmo ricavare da una ricorrenza come quella odierna, per evitare che già domani si pensi ad altro.
*Articolo apparso su ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 10 febbraio 2019
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