di Alessandro Campi
Nessuna sorpresa nelle urne, nessun cambiamento politico all’orizzonte. Almeno in tempi brevi. Dopo tanti sondaggi, il primo voto reale del 2019 (in Abruzzo) ha confermato quello che in realtà era nell’aria da tempo: la Lega salviniana macina consensi crescenti, ormai anche nel centro-sud; il M5S fatica a trovare un equilibrio tra il doppiopetto governativo e il gilet della protesta; Forza Italia decresce ma resiste; il Pd del dopo-Renzi prova a ripartire ma senza grandi idee.
I contraenti il patto di governo dicono che non ci saranno contraccolpi negativi su quest’ultimo. Bisogna prenderli in parola. La loro alleanza al momento non ha alternative praticabili. Aspettiamoci, in vista del voto europeo, scaramucce e tensioni dovuto al bisogno che tutti hanno di differenziarsi al massimo per capitalizzare il massimo col voto proporzionale, ma la potenziale resa dei conti tra Lega e M5S sarà (se cui sarà) nel prossimo autunno sui temi economici, quando “l’anno bellissimo” evocata dal premier Conte potrebbe rivelarsi horribilis a causa della recessione.
Al momento i fattori di coesione (basti vedere la sintonia di queste ore nelle critiche alla Banca d’Italia motivate dalla solita retorica populista contro le élites) e i comuni interessi prevalgono ancora su quelli di divisione. Non bisogna mai dimenticare che Salvini e Di Maio non stanno insieme per uno scherzo della storia. Si sono uniti per motivi politico-generazionali: dare vita ad un nuovo bipolarismo giallo-verde sulle ceneri, rispettivamente, del moderatismo berlusconiano e della sinistra riformista. Sono, per quando diverse tra di loro su molti temi, le due forze del cambiamento che in nome del popolo combattono il potere delle vecchie consorterie.
Ciò detto, la Lega in questa fase cresce così tanto per almeno le seguenti ragioni: ha un leader che è un mago della comunicazione; è un partito vecchia maniera, gerarchico e radicato nel territorio; ha una propaganda martellante basata su poche idee fondamentali (laddove il M5S tentenna e spesso cambia opinione, mentre gli altri nemmeno si capisce cosa vogliano); offre quelle garanzie di buona amministrazione che il M5S non riesce a dare (governando da anni realtà complesse come la Lombardia o il Veneto); dispone in questo momento di un doppio potere coalizionale, potendo sempre scegliere tra Berlusconi e Di Maio-Casaleggio, ragione per cui è percepita come sempre vincente (e gli elettori vanno di preferenza verso chi appare vincente).
Ma l’avanzata abruzzese, per quanto significativa, non è ancora lo sfondamento verso il 35% previsto da certi sondaggi. Insomma, il Cavaliere è ancora troppo forte perché Salvini possa pensare di farci una coalizione insieme anche a livello nazionale. Meglio mantenere l’alleanza valida solo sul territorio. Quello che potrebbe accadere è che si perpetui – economia permettendo almeno sino alle amministrative del 2020 – la schizofrenia di un partito che al centro e in periferia tiene in piedi due diverse maggioranze, riuscendo peraltro a guadagnarci sempre. Il nuovo centrodestra sovranista egemonizzato dalla Lega è una realtà sul piano culturale, del linguaggio e delle idee, ma per diventare formula politica serve, dal punto di vista di Salvini, un ulteriore smottamento dell’area centrista, che potrebbe anche non verificarsi a breve.
Quanto al M5S, certo, la delusione è grande, visto anche l’impegno in Abruzzo dei capi del movimento durante la campagna elettorale. In termini assoluti, ha perso circa 6 voti su 10, passando dai 300mila voti delle politiche del 2017 ai meno di 120mila di oggi (e non si dica che per omogeneità il riferimento dovrebbe essere alle regionali del 2014 perché quella politicamente era un’altra era geologica).
Si sa che alle amministrative i grillini non vanno mai bene: corrono da soli e mancano spesso di relazioni con le reti del potere locale. Ma forse cominciano a scontare agli occhi degli elettori anche le cattive prove che hanno dato nelle poche amministrazioni sin qui conquistate (a partire da Roma). Circola dunque l’idea che per fermare l’emorragia dei voti si dovrebbe tornare alla purezza delle origini. Ma molti italiani (specie al Sud) li hanno votati, non solo perché mossi dalla rabbia e dal risentimento, ma perché governassero secondo le promesse fatte in campagna elettorale al posto dei vecchi politicanti. Uscire dal Palazzo per tornare nelle piazze non è detto che porti consensi, semmai potrebbe farne perdere di ulteriori. Ciò che rischia insomma di danneggiare i grillini non sono le compromissioni col potere, come pensa l’ala chavista-rivoluzionaria del partito, ma il diffondersi tra molti italiani del convincimento che essi siano strutturalmente inadatti a gestire alcunché. Il vaffa al vaffa registrato in Abruzzo è l’avvisaglia di questo sentimento, che per questo partito potrebbe diventare in prospettiva esiziale.
Quando al Pd, le ragioni di oggettiva soddisfazione vanno accompagnate per realismo e serietà con quelle di permanente preoccupazione. Intanto si è persa una regione, che è il dato politico brutale. In compenso si è arrivati secondi quando si temeva di arrivare terzi. E ciò perché hanno funzionato la credibilità personale del candidato, Giovanni Legnini, e la strategia di una coalizione di sinistra plurale e allargata. Anche se la selva di sigle messe in campo senza tenere in conto il funzionamento della legge elettorale ha prodotto alla fine un esito paradossale: col 30% dei voti il centrosinistra ha preso 6 seggi, col 20% il M5S ne ha ottenuti 7. Non solo, ma in quest’arcipelago di simboli e liste il Pd ha conseguito un modesto 11%: il che significa che se la sinistra è ancora forte, quest’ultimo è invece sempre meno competitivo. Per il Pd prossimo a scegliersi un nuovo segretario il voto abruzzese apre dunque un serio dilemma strategico: rassegnarsi a divenire parte di una più ampia aggregazione (il cosiddetto ‘progetto Calenda’) o continuare a rivendicare un ruolo egemonico nella convinzione che si possa prima o poi tornare ai fasti elettorali del passato? Andare oltre il Pd o provare a rilanciarne l’identità e il progetto?
Due parole per concludere sull’afflusso dei votanti. Basso (53%) ma non un dato drammatico. Siamo in pieno inverno, mentre nel 2014 (col 62% di affluenza) si votò a maggio e in coincidenza con le europee. Il problema politico del prossimo futuro, partendo da questi dati, è un altro: c’è una metà circa di italiani che non va più alle urne. A questi chi ci pensa? Invece di redistribuirsi gli elettori che già votano (peraltro in modo sempre più incontrollabile) non sarebbe più sensato provare a lanciare un’offerta radicalmente nuova che suoni da stimolo per gli apatici e i delusi della nostra democrazia?
*Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messagero’ (Roma) e ‘Il Mattino’ del 12 febbraio 2019.
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