di Alessandro Campi
Di contestazioni militari in occasione della parata del 2 giugno ci ricordavamo quelle dei “proletari in divisa” vicini a Lotta Continua e alla sinistra extra-parlamentare. Ma erano appunto gli anni Settanta, segnati da profonde divisioni ideologiche, da forti contrasti sociali e da un clima di violenza diffusa. Questo sghembo governo giallo-verde, in un contesto che comincia a somigliare un po’ troppo a quello appena evocato, col risentimento individuale che nel frattempo ha preso il posto della lotta di classe,
di Alessandro Campi

Di contestazioni militari in occasione della parata del 2 giugno ci ricordavamo quelle dei “proletari in divisa” vicini a Lotta Continua e alla sinistra extra-parlamentare. Ma erano appunto gli anni Settanta, segnati da profonde divisioni ideologiche, da forti contrasti sociali e da un clima di violenza diffusa. Questo sghembo governo giallo-verde, in un contesto che comincia a somigliare un po’ troppo a quello appena evocato, col risentimento individuale che nel frattempo ha preso il posto della lotta di classe, è riuscito nel capolavoro politico di riaprire la stagione dei malumori entro le forze armate. Ma con una differenza non da poco: le proteste non vengono più dalle truppe politicizzate con poche stellette, ma dalle alte gerarchie cariche di medaglie.

E’ successo altre volte, nei lunghi anni di vita della Repubblica, che militari di altissimo grado e d’incontestabile prestigio professionale abbiano assunto una posizione di esplicito dissenso e di contestazione aperta nei confronti di un governo in carica o di suoi esponenti di primo piano. Sono episodi storici che ancora si ricordano, anche se ormai solo nei libri di storia. E che all’epoca fecero temere che dietro gli attacchi o le critiche rivolte alla politica dal mondo militare si nascondessero pericolose tentazioni sovversive e dunque una grave minaccia alla democrazia.

Questa volta di fantasie golpiste o di insubordinazione non è nemmeno il caso di parlare, a conferma che i tempi sono definitivamente cambiati. La scelta polemica di non presenziare all’odierna parata militare da parte di alcuni militari “ribelli”, così come le loro veementi dichiarazioni alla stampa, sembrano piuttosto nascere dal timore che, nel nome di una generica mentalità “peace and love” che del pacifismo ideologico è ovviamente la caricatura, si vogliano snaturare il ruolo e la missione delle forze armate. Senza nemmeno rendersi conto di quanto queste ultime siano una realtà operativa altamente professionale e pienamente integrata nel sistema di alleanze internazionale dell’Italia. Oltre a rappresentare, per gli investimenti che questo settore muove, un pezzo importante della strategia di politica industriale del Paese. Dietro le dichiarazioni di fuoco di alcuni generali in pensione (è offensivo definirli ex generali come qualcuno ha fatto in queste ore) c’è dunque una questione politicamente molto seria, che difficilmente non potrà avere riflessi sui già delicati equilibri di potere tra Lega e M5S. Non è un caso che l’ipotesi di un rimpasto di governo vagheggiata da Salvini come indispensabile per rilanciarne l’azione includa anche la sostituzione dell’attuale responsabile della Difesa.

In attesa di capire quale potrà essere il destino della ministra Trenta, resta l’amarezza per una festa rovinata in partenza. Una festa che già in passato ha avuto una vita travagliata, tra sospensioni, rimandi, cambi di scenario e modifiche nel cerimoniale (la parata militare non si è fatta per più di un decennio, con la scusa ufficiale dei costi, ed è stata ripristinata nel 2000 solo per volontà del Presidente Ciampi). Una festa che dovrebbe simboleggiare (almeno per un giorno) la coesione della Repubblica (e con essa della nazione che ne è il sostrato storico-culturale) e che invece finisce per rifletterne i contrasti interni e i malumori profondi. Che ai giorni nostri non sono più ideologici o frutto di opposte visioni del mondo, come un tempo, ma spesso un prodotto del pressappochismo politico, del semplicismo culturale e della mancanza di senso istituzionale sempre più diffusi.

Prendiamo appunto l’intenzione, dichiarata dalla Ministra Trenta, di dedicare la ricorrenza di quest’anno della Repubblica e la parata del 2 giugno al tema dell’“inclusione”: parola magica del lessico politico contemporaneo che tutto vorrebbe dire sul piano dei valori assoluti ma che in realtà nulla dice di concreto. Inclusione come sinonimo di unità nazionale? Inclusione come bisogno di mostrarsi accoglienti nei confronti dei migranti e degli stranieri? Inclusione come dovere, per una comunità politica, di ricordarsi sempre degli ultimi? O inclusione nel senso di un “famolo strano” politico-istituzionale a partire da una formula tanto giornalisticamente à la page quanto generica e vuota? Alla fine, l’interpretazione autentica (ma assai deludente) l’ha data la stessa ministra Trenta, quando in un’intervista proprio al ‘Messaggero’ ha limitato la sua ansia di inclusione alla Difesa, che attraverso la parata vorrebbe mostrare come essa “non dimentica i suoi uomini e le donne, militari e civili, non dimentica chi, ferito nel corpo o nell’anima in teatro operativo, porta su di sé i segni delle ferite, non dimentica chi si ammala per il servizio, non dimentica le famiglie di coloro che sono morti per la difesa della Patria”. Insomma, tante furore polemico per nulla, se questa sua idea dell’inclusione era davvero quella iniziale.

Ma prendiamo anche l’annuncio del premier Conte di un paio di settimane fa: la rinuncia ad acquistare cinque fucili in cambio di una borsa di studio. Innanzitutto, perché non dieci o quindici fucili in meno, visto che non farebbe per i militari un gran differenza. Il problema è che un atto politico-simbolico che si vorrebbe nel solco di Aldo Capitini altro non è che un pronunciamento demagogico ed estemporaneo, indicativo tuttavia di una mentalità che non è pacifista e anti-militarista in senso proprio, ma piuttosto orientata ad assecondare un sentimentalismo diffuso e un vago “voleseme bene”, come tale sufficiente a spiegare il malumore di alcuni esponenti delle nostre forze armate: da anni impegnate in concrete operazioni di pacificazione e di ricostruzione post-conflitto nei quattro angoli del mondo anche grazie ai fucili di cui li si vorrebbe retoricamente privare. Laddove è chiaro che la pace (una concreta condizione politica che spesso di deve difendere utilizzando la forza o la sua minaccia) non è il pacifismo (un’astrazione filosofica da anime belle).

Resta, come si diceva, una festa rovinata in partenza e indebolita nel suo significato simbolico. Alle defezioni volontarie di alcuni militari oggi si aggiungono quelle forzate e involontarie di diversi esponenti politici. Si è deciso infatti di non invitare i segretari o leader di partito, a meno che non abbiano cariche istituzionali. Ci sarà dunque Zingaretti, come Presidente della Regione Lazio, ma non ci sarà ad esempio Giorgia Meloni, in questi giorni oltremodo critica nei confronti del ministro della Difesa (al punto da far sventolare ai suoi parlamentari il tricolore nelle Aule a difesa della rispettabilità dei nostri militari). Una scelta protocollare voluta, a quanto sembra, direttamente da quest’ultima, con un certo sapore di vendetta. Il che ci riporta a quanto detto sopra: invece di promuovere l’unità del Paese e delle forze politiche che lo rappresentano se ne alimentano le divisioni e i risentimenti, venendo così meno ai propri doveri istituzionali. Senza contare il paradosso di una festa dell’inclusione che diventa cerimonia dell’esclusione, secondo la discrezione di chi la organizza.

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