di Federico Anghelé

Quello andato in scena a Genova nei scorsi giorni non è stato un dramma locale. E non si è trattato soltanto di un (grave) problema di natura economica (il dissesto delle partecipate comunali), sociale (il rischio disoccupazione che grava su molti lavoratori italiani) o politico-giuridica (l’interruzione di un consiglio comunale, l’inadeguatezza della classe politica ad affrontare i molteplici focolai della crisi). A scontrarsi a Genova sono stati due diversi approcci alla politica e due visioni del mondo che si stanno dimostrando sempre più antitetiche e inconciliabili: da una parte quella di chi, per formazione, posizionamento ideologico, talvolta per semplice convenienza, rifiuta di vedere la realtà per quello che è, illudendosi e propagandando che le consuete ricette novecentesche in materia di gestione della cosa pubblica e di concezione del welfare siano riproponibili ancora oggi.

Dall’altra, i fautori di un realismo (ancor pallido, ad essere sinceri) per il quale le grandi narrazioni ideologiche andrebbero sostituite da analisi accurate e non pregiudiziali dei dati di realtà, ritenute come l’unico strumento utile a pensare e a dare avvio a proposte e soluzioni in grado di incamminare il paese verso un futuro meno incerto.

Genova, insomma, come specchio (amplificato) delle vicende nazionali, rappresentazione fedele e drammatizzata di quelle spaccature che esistono nel paese da anni e che, come un fiume carsico, si ripropongono talvolta con quei toni concitati e inaspettati vissuti anche nel capoluogo ligure. Diciamolo subito: nel dramma andato in scena sul palcoscenico genovese, il ruolo del realista è una parte del tutto secondaria interpretata da attori titubanti e incerti che rispondono al nome di Marco Doria e di Partito Democratico. Il Sindaco – appartenente a una cultura ideologica che ha fatto della confusa difesa dei “beni comuni” e dell’opposizione al neoliberismo la propria bandiera – pur con le consuete lentezze da più parti denunciate (l’ultimo è stato il genovese Piero Ottone sulle pagine de “La Repubblica”) ha dato prova di onestà intellettuale e di un timidissimo pragmatismo. Seppur smentendo ogni volontà privatizzatrice, Doria ha fatto proprio un principio razionale: per evitare il fallimento dell’azienda dei trasporti locale è inutile illudersi di poter iniettare altro capitale pubblico a fondo perduto senza rivedere prima l’organizzazione di Amt. Ancor più pragmatico si è mostrato il Pd locale, favorevole all’ingresso dei privati per contribuire a sanare i conti di un’azienda tecnicamente fallita (600 milioni di debiti accumulati dal 1983 ad oggi; 8 milioni di perdite previste per il solo 2014; 30 milioni annuali di contributo delle casse comunali a cui si aggiungono altri 35 milioni all’anno per pagare mutui contratti da Amt nel corso del tempo). Intendiamoci, il Partito Democratico ha recitato, come sempre, una parte schizofrenica. Se, da un lato, si è detto d’accordo alla privatizzazione parziale di Amt (con la speranza, forse, di scaricare sui privati un problema che per molti sembra senza soluzione), dall’altra si è intestato un accordo coi tranvieri rivoltosi che appare fragile, incapace di incidere sulla gestione fuori controllo della municipalizzata e che sembra il preludio di un taglio al servizio e di un aumento delle tasse ragionali. Inoltre, al principale partito della sinistra – egemone a Genova da ormai molti anni – andrebbe imputata la responsabilità di non aver disinnescato anni fa la bomba Amt, di aver mantenuto un atteggiamento ondivago sulla municipalizzata fatto di aperture al mercato (Pericu fece entrare i francesi di Transdev col 41%) e di chiusure demagogiche (l’accordo coi soci francesi fu cancellato da Marta Vincenzi, schierata dalla parte dei tranvieri e, di fatto, del mantenimento status quo), per nulla intenzionato a un ridisegno complessivo e moderno della mobilità cittadina (Genova è la quinta città più congestionata d’Italia, pochissime le corsie protette per i bus, pressoché inesistenti i parcheggi d’interscambio, la metropolitana fornisce un servizio del tutto inadeguato).

Veri protagonisti sulla scena genovese sono stati invece i sostenitori della linea dura, retori dei beni comuni, rumorosissimi nemici della gestione privata, dell’efficienza economica, della riorganizzazione aziendale. A giocare il ruolo dei vincitori (per ora), una parte di quell’elettorato che aveva appoggiato con convinzione Marco Doria, il garante delle passate glorie della “città rossa”, l’interprete della democrazia partecipativa, del mantenimento in mano pubblica dei servizi al cittadino. Accanto a Sel e agli eredi della galassia comunista, la parte del mattatore è stata però interpretata da un sindacato che, lungi dal porsi come filtro alle rivendicazioni dei lavoratori, ha invece cavalcato e fomentato la rabbia dei suoi iscritti, in spregio a qualsiasi regola in materia di tutela degli utenti e dei cittadini (si pensi alla clamorosa interruzione del Consiglio Comunale). È una compagine compatta nel rifiuto di scendere a patti con la realtà, di riconoscere non solo che le vecchie ricette di una spesa pubblica senza fine non sono oggi più riproponibili, ma ancor più di accettare che la crisi italiana debba non poco a quella spesa fuori controllo, a quella gestione opaca e lottizzata della cosa pubblica. Il mantra che si ripete ormai da anni è quello della difesa dei beni comuni, categoria dietro alla quale si cela una confusa molteplicità di temi diversi: quel “giù le mani dai beni pubblici” – urlato in piazza da molti – è diventato il motto di chi rifiuta il cambiamento, di chi preferisce uno status quo che, per quanto degno di critica, è pur sempre considerato un’opzione meno nefasta di qualsiasi via d’uscita prontamente etichettata come “neoliberista”. Le rivendicazioni ideologiche dei benicomunisti anestetizzano lo sguardo su una realtà drammatica che ha bisogno di soluzioni rapide, di cambiamenti vigorosi non necessariamente nella direzione di una privatizzazione quale panacea di ogni male ma, di certo, di una rottura con le politiche fino ad ora intraprese all’insegna dell’inefficienza gestionale, del contributi pubblici a pioggia, della crescita smisurata degli organici per ragioni politiche.

Se quella tra pragmatici e benicomunisti è stata, almeno a Genova, una competizione tutta a sinistra, nella quasi totale assenza dell’opposizione moderata (fatta eccezione per l’isolata voce di Enrico Musso, liberale che sfidò Doria alle scorse amministrative), fragorosa è stata la presenza di Beppe Grillo, l’unico a scendere in piazza coi lavoratori dell’Amt. Il leader a cinquestelle – che proprio a Genova rilancerà sabato prossimo il V-Day – ha dato prova, se ancora ce ne fosse stato bisogno, dell’eterogeneo impasto di cui è fatta la sua cultura politica. Difendendo i lavoratori, minacciati da quella privatizzazione (soft) fatta passare per una svendita portata avanti dalla solita classe politica inetta e ingorda, ha di fatto sconfessato la Giunta a cinquestelle di Parma, che sta discutendo di una parziale apertura ai privati del trasporto locale. Dimostrando di essere un politico estremamente flessibile e adattabile a qualsiasi manifestazione di disagio collettivo il cui pragmatismo, però, è ormai privo di qualsivoglia contenuto coerente e concreto.

 

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