di Damiano Palano
Alla metà degli anni Cinquanta, Charles Wright Mills fissò nelle pagine di The Power Elite un allarmato ritratto di quella che stava diventando la democrazia americana. Agli occhi del grande sociologo, lo sforzo condotto durante il secondo conflitto mondiale, il nuovo ruolo di superpotenza globale e la tensione della Guerra fredda avevano infatti rapidamente modificato la struttura sociale americana e, in particolare, l’equilibrio fra istituzioni politiche e poteri sociali. Ciò che appariva più rilevante per Mills era soprattutto il fatto che le diverse élites – politica, economica e militare – apparivano fra loro in fondo piuttosto coerenti, tanto da configurare un’unica classe dirigente, coesa dal punto di vista sociale e sotto il profilo culturale. E così l’immagine di una democrazia tenuta in equilibrio da una pluralità di gruppi sociali – quella stessa immagine che Robert Dahl avrebbe definito, di lì a poco, come una «poliarchia» – tendeva ad essere sempre più offuscata da una concentrazione del potere reale che confinava la politica (e le stesse élites politiche) in una posizione sempre più subordinata.
Sull’onda del libro di Mills, nella political science si accese l’infuocato dibattito fra ‘pluralisti’ ed ‘elitisti’ (o ‘neo-elitisti’): un dibattito che implicava una contrapposizione metodologica su come studiare il potere, ma i cui risvolti erano soprattutto politici, perché, in fondo, in gioco era proprio l’immagine del sistema democratico americano. Anche per questo, quel dibattito non si è mai veramente esaurito, ed ha anzi conosciuto una nuova riviviscenza nell’ultimo decennio, sia in Europa, sia al di là dell’Atlantico. Seguendo le orme di Mills, un gruppo piuttosto affollato di osservatori delle società occidentali ha infatti incominciato a intravedere il ritorno – più o meno marcato – a una condizione di predominio forte delle élites, e in special modo delle élites economiche, capaci di stringere in un abbraccio fatale le istituzioni democratiche. Massimo L. Salvadori ha per esempio definito i sistemi politici contemporanei come «governi a legittimazione popolare passiva, perché le masse giocano un ruolo del tutto secondario, mentre gli attori politici non sono che «‘amministratori’ locali del potere della oligarchia della finanza e dell’industria». Sheldon Wolin, riferendosi al ruolo assunto dalle élites economiche negli Stati Uniti, ha invece dipinto l’inquietante immagine di un «totalitarismo rovesciato», e Colin Crouch ha fissato la tendenza in atto nella sagoma della «postdemocrazia»: una forma di regime – diversa dalla democrazia che abbiamo conosciuto, così come dalle oligarchie del passato – che non comporta l’abbandono delle istituzioni formali della democrazia liberale, ma in cui la partecipazione dei cittadini risulta circoscritta esclusivamente al momento della scelta elettorale e in cui le decisioni più rilevanti sono prerogativa di gruppi ristretti.
In questo stesso filone si colloca anche la lettura proposta da Rita Di Leo nel suo Il ritorno delle elites (Manifestolibri, Roma, 2012, euro 15.00). In questo volume, Di Leo traccia infatti un disegno storico delle tappe che hanno condotto le élites – o, meglio, le élites strettamente economiche – a riconquistare un ruolo dominante, non più contrastato dagli attori ‘politici’, e anzi capace di subordinare la politica ai propri interessi. In questo senso, Di Leo – nota soprattutto per i suoi studi sull’Unione Sovietica, oltre che per la sua attiva partecipazione all’avventura teorica e politica dell’«operaismo» italiano degli anni Sessanta – non nasconde certo le implicazioni della sua tesi, esplicitate fin dalle prime righe del libro: «Il ritorno delle élites alla luce del sole è dovuto alla sconfitta della politica ancorata a ideologie forti, e ai partiti di massa del Novecento europeo. E questa volta si tratta delle élites economiche. Sebbene esse non fossero mai scomparse come strato sociale ed economico, per quasi tutto il secolo erano rimaste all’ombra del potere politico, che dapprima aveva assunto le forme del nazionalismo militante, e poi quelle dello Stato sociale» (p. 9). Naturalmente, il primato delle élites non costituisce una novità, ma per Di Leo l’elemento inedito è rappresentato dal fatto che le élites conquistano oggi direttamente quel potere politico su cui nel passato si erano limitate a esercitare una pressione, rispettando una sorta di informale ‘divisione del lavoro’. In altri termini, il ritorno delle élites corrisponde a un trionfo dell’economia, la quale ottiene «il posto di comando» e cancella ogni autonomia della sfera politica. La forma che vede «l’economia al posto di comando» estende peraltro al Vecchio continente un assetto proprio degli Stati Uniti, e rompe con le due forme storiche principali assunte dall’autonomia della politica nella tradizione europea, ossia la politica di potenza e quella che di Di Leo definisce come la «politica progetto». Se la «politica di potenza» – che implica una certa subordinazione delle élites economiche agli obiettivi di potenza dello Stato – è dominante per buona parte della modernità europea, la «politica progetto» nasce invece nel Novecento, e ne contrassegna la vicenda almeno dal 1917: proprio a partire da quel momento ogni progetto politico deve essere esteso alla massa, e non può più rimanere circoscritto alle élites.
Naturalmente Di Leo non concepisce il modello europeo come l’esito della vittoria delle masse sulle élites, perché riconosce come anche la «politica progetto» novecentesca abbia alla base l’azione di minoranze, le quali risultano però nettamente distinte tanto dalle élites economiche quanto élites aristocratiche. Si tratta, in altre parole, di un ceto politico che esprime – nella propria composizione, così come nel proprio profilo ideologico – una (almeno relativa) autonomia della politica, e che si riassume nella figura europea del «politico professionale», nella declinazione weberiana o in quella leniniana. È proprio questo modello che va in crisi negli anni Ottanta, i primi segnali del mutamento vengono ritrovati da Di Leo nella crisi dell’Urss, una crisi che incomincia a palesarsi con l’arresto della crescita economica alla fine degli anni Settanta e che risulta ulteriormente aggravata dalla guerra in Afghanistan. Non appena questi segnali di crisi esplodono, la contrapposizione fra le due Europe si esaurisce, e l’autonomia della politica comincia a dissolversi. Secondo Di Leo le élites economiche gettano le basi del loro successo ancora prima del 1989, e cioè nel momento in cui accettano il terreno di uno scontro culturale e politico. «A vincere il confronto», scrive Di Leo, «è stata l’élite economica, con la scelta di adattarsi allo Stato sociale penetrando nel gioco della politica democratica». In altri termini, «le élites economiche degli anni Sessanta e Settanta accettarono la sfida e si fecero avanti non solo con propri programmi ma soprattutto con le loro ben maggiori risorse economiche e culturali, per cui vinsero e poterono consumare i frutti della vittoria» (p. 35). E il risultato è allora quasi paradossale: «Nelle condizioni create dall’autonomia della politica, l’egemonia è andata agli strati sociali protagonisti dell’agire economico. Il primato delle élites economiche è stato l’esito naturale della competizione democratica con le élites politiche dello Stato sociale. Sono proprio le regole della democrazia vincente che hanno dato il primato al mondo dell’economia» (p. 36). La riscossa delle élites – secondo l’analisi di Di Leo – si compie d’altronde tanto sul lato culturale, quanto su quello strettamente materiale, con un indebolimento delle strutture del welfare State. Più in generale, «la democrazia maggioritaria e la logica del primato dell’economia esprimono una cultura ostile a comportamenti politici collettivi e sono orientati al rapporto diretto, quello tra il singolo e il deputato che ha contribuito ad eleggerlo o quello tra il lavoratore e il capo con cui lavora (p. 43). Ma, soprattutto, le élites europee prendono atto che lo spazio della politica e i margini stessi dell’autonomia della politica si sono ormai assottigliati, fino a svanire.
Quando ricostruisce la vittoria delle élites economiche, Di Leo ricerca naturalmente le cause che hanno sancito l’esito della sconfitta della politica progetto e che hanno determinato la conclusione della vicenda dall’autonomia della politica. Ma, a questo proposito, si tiene piuttosto distante dalla tentazione di ritrovare meccanismi causali rigidi, preferendo percorrere la strada dell’interpretazione del mutamento. Per esempio osserva: «Qual è il rapporto di causa-effetto? Sono le élites politico-professionali ad avere perso, consentendo di conseguenza alle élites economiche di prendere nelle loro mani il potere politico, per la prima volta nella storia? Oppure nell’andamento ciclico della società dell’uomo è davvero maturato il ciclo dell’economia al posto di comando, e dunque non avrebbe senso cercare di capire chi ha vinto e chi ha perso tra l’una e l’altra élite. Semmai serve fare un confronto tra l’uso del potere dei politici professionali degli Stati nazione e quello delle élites economiche sovranazionali» (p. 95). Proprio un simile confronto conduce Di Leo a ritrovare un netto scarto fra la prospettiva nazionale, che contrassegna sempre le singole classi politiche, dall’orizzonte tendenzialmente universale delle élites economiche. In altre parole, si tratta di confini dall’estensione ben diversa, ed è la stessa vocazione universale a consentire la vittoria alle classi dirigenti economiche. Anche per questo, infatti, «le élites economiche sono diventate un modello di riferimento universale quando hanno sciolto i legami dal proprio luogo di origine» e «quando hanno realizzato strategie sovranazionali la cui natura è universalmente chiara» (p. 96).
Benché si tenga lontana da spiegazioni deterministiche, c’è però un processo che assume un ruolo di primo piano nel discorso di Di Leo, ed è rappresentato dalla presenza dell’Unione Sovietica: non certo perché Di Leo consideri l’Urss come un modello positivo, o come un esperimento socialista riuscito, ma perché la sfida costituita dall’alternativa sovietica è all’origine di una competizione che coinvolge non tanto (o prevalentemente) il piano della contrapposizione internazionale fra due Superpotenze, quanto il piano del modello di sviluppo e di protezione sociale. Per molti versi, è dunque la costante pressione del nemico sovietico a ‘costringere’ l’Occidente – e in special modo l’Europa – ad accettare il terreno di una competizione in cui la variabile determinante diventa la capacità di integrare effettivamente le masse nello Stato e di garantire elevati livelli di benessere. «Nella seconda metà del Novecento» – scrive infatti Di Leo in un passaggio importante – «il successo della politica-progetto degli Stati-nazione europei è dipeso dalla loro volontà-necessità di competere con l’esperimento sovietico. La concorrenza si è basata su un obiettivo apparentemente limitato: il cambiamento materiale delle condizioni di vita della massa, con il conseguente consenso di massa al governo delle élites. L’obiettivo appariva limitato al confronto della politica progetto sovietica, che prospettava la realizzazione di una società alternativa al capitalismo, alle sue élites, alla loro cultura, arte e persino religione. L’esperimento sovietico si fondava sul principio cardine del primato della politica. La politica al posto di comando era il mezzo per cambiare la società, per cui era inteso che si trattasse di una grande politica, con una strategia all’altezza della politica di potenza messa in atto nei secoli in cui l’Europa era padrona del mondo. […] L’esperimento sovietico ha avuto una forte attrazione per le masse (e per molti intellettuali), ed è stato con esso che le élites si sono confrontate per due volte. […] Nel 1945-1989, quando la minaccia si era concretizzata e una gran parte dell’Europa orientale e metà della Germania stavano ormai sperimentando il modello sovietico (con ciò stesso scoprendo e patendo le contraddizioni tra progetto teorico e programma politico), proprio allora le élites politiche europee si misero con successo in concorrenza con la politica progetto sovietica. Il risultato fu il compromesso con gli uomini dell’economia, che portò al welfare state, caposaldo dell’epoca d’oro per la società europea: l’epoca in cui lavoro e capitale si legittimarono reciprocamente nelle specifiche funzioni, e allo stesso si corresponsabilizzarono nei confronti delle aspettative di massa» (pp. 87-88).
Il compromesso, o, meglio, l’«armistizio» – come l’ha definito Alfio Mastropaolo, alludendo alle basi sociali ed economiche della democrazia postbellica – è destinato a essere messo in discussione dal progressivo venir meno della minaccia sovietica: una minaccia che inizia a dissolversi già alla fine degli anni Settanta, perché l’Urss appare sempre meno in grado di mantenere quegli elevati tassi di sviluppo economico e di modernizzazione sociale (che pure aveva mostrato nei due decenni successivi al Secondo conflitto mondiale), e perché il blocco del socialismo reale si disgrega alla fine degli anni Ottanta. Ed è così proprio l’Ottantanove a far scemare – insieme all’Urss – quella tensione che stava alla base del «compromesso»: «con la scomparsa dell’Urss si allentarono i fili che avevano tenuto insieme le politiche dei governi europei, e le relazioni sindacali e politiche tra élite e massa. La triangolazione del welfare state fu messa in questione da proposte culturali orientate a restituire per intero alle élites il loro ruolo di comando. E questa volta erano le élites economiche a chiederlo, come protagoniste dell’opportunità che si era aperta con la sconfitta dell’esperimento sovietico e, con esso, del primato della politica. Le élites economiche europee troncarono i legami con tutto ciò che avevano accettato sino ad allora e, nella nuova fase storica apertasi con il 1989, si orientarono versoi il capitalismo finanziario sovranazionale, con le sue attraenti modalità di successo immediato. L’orientamento non riguardò soltanto la finanziarizzazione dell’economia ma anche il contesto politico-culturale» (pp. 87-88).
I risultati del mutamento innescato dal 1989 si riflettono oggi nella distanza fra élites e masse, una distanza sempre più profonda, che – sia negli Usa, sia in Europa – non sembra presentare margini cambiamento sostanziale, e che tende a dissolvere la stessa idea che possa esistere un interesse ‘pubblico’. «Non c’è più una cultura politica che legittima l’esistenza di un pubblico interesse, di relazioni equilibrate tra gli strati sociali, tra chi lavora, chi possiede e chi comanda» (p. 102)», e inoltre, osserva Di Leo, «la dimensione del potere economico non ha i limiti del passato perché le élites non hanno avversari, non hanno nulla da temere dalle élites politiche, da governi, parlamenti, partiti, sindacati, movimenti d’opinione» (p. 102). Tanto che l’unica reale traccia di una breccia sembra venire, per Di Leo, soltanto dalle critiche di Occupy Wall Street, perché questo movimento – al di là della sua effettiva consistenza politica – infligge un primo rilevante colpo alla indiscussa legittimazione del potere delle élites economiche e finanziarie.
Il discorso di Di Leo può essere considerato come una sorta di introduzione allo studio delle élites e delle loro trasformazioni, tra XX e XXI secolo. In questo senso, sono due le intuizioni che risultano particolarmente preziose: in primo luogo, l’idea di considerare in modo affiancato – seppur non sovrapposto – la dimensione interna e la dimensione internazionale, perché probabilmente solo in questo modo si può evitare il rischio di collocare la storia delle democrazie novecentesche in una sorta di vuoto pneumatico, e dunque di interpretare le pressioni esterne – e in particolare la pressione costituita dall’Unione Sovietica – solo come elementi marginali; in secondo luogo, l’attenzione riservata alla dimensione ‘materiale’ e ‘culturale’ del ritorno delle élites, perché proprio quest’ultima dimensione è in grado di cogliere un salto effettivo nella storia delle ‘classi dirigenti globali’. L’interesse per la dimensione ‘culturale’ diventa in effetti cruciale per un’analisi che voglia tenersi lontano dalla tentazione deterministica di leggere nei mutamenti nel livello politico soltanto i riflessi di ciò che avviene sul piano dell’economia globale. Ma diventa importante anche perché si può intravedere davvero, a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, un significativo mutamento nel profilo culturale delle élites e nella logica della loro azione, tanto che non sarebbe improprio scomodare a questo proposito la formula gramsciana dell’«egemonia».
Il rischio di ogni indagine dedicata alle élites è d’altronde quello di disegnare una sorta di ‘mappa genealogica’ destinata a condurre all’ombra di qualche ‘grande vecchio’, e di interpretare così la politica come il risultato di un’azione pianificata da qualche esclusivo gruppo che agisce in modo occulto. E anche le indagini sul ritorno delle élites tendono spesso a replicare questo schema. Ciò non significa naturalmente che non esistano gruppi, più o meno occulti, più o meno esclusivi, che mirano a influire sulle decisioni pubbliche, ma il punto è piuttosto che riescano effettivamente a esercitare un potere significativo. Da questo punto di vista, gli ultimi trent’anni hanno scandito davvero le tappe di un progressivo ‘smantellamento’ dell’autonomia della politica, ed è proprio grazie a questo ‘vuoto di potere’ che, in qualche misura, le élites di cui parla Di Leo sono riuscite a penetrare senza incontrare rilevanti resistenze. I lineamenti di interpretazione proposti da Di Leo sono d’altronde interessanti perché hanno il merito di attirare l’attenzione su una serie di interrogativi che una ricostruzione della storia degli ultimi quattro decenni – in un’ottica che non sia provinciale – non può in alcun modo eludere. Tra questi interrogativi, un posto di rilievo è occupato da un meditato ripensamento del ruolo che l’Urss ha giocato nel passaggio fra gli anni Settanta e Ottanta, ossia nel periodo in cui Reagan lancia la propria sfida all’«Impero del Male», in cui le economie occidentali riescono a riconquistare una certa vitalità, e in cui, viceversa, i paesi del blocco socialista si rivelano incapaci di superare la stagione ‘fordista’.
Un interrogativo ancora più significativo è però probabilmente rappresentato dal tipo di potere su cui si regge davvero la ‘super-élite’ globale. Il mutamento nel rapporto fra economia e politica, e fra mercato e democrazia, non può infatti essere compreso senza considerare quel processo di ‘finanziarizzazione’ che si determina a partire dagli anni Ottanta e che prosegue nei due decenni seguenti. Questa dinamica è certo anche un risultato dell’azione che le élites svolgono, sia sotto il profilo materiale, sia dal punto di vista culturale. Per esempio, quella che si identifica con il termine ‘globalizzazione’ è – oltre che una dinamica innescata dall’evoluzione tecnologica – soprattutto l’esito di scelte politiche con cui gli Stati nazionali decidono di ridurre le barriere alle transazioni finanziarie. Senza dubbio, si tratta di decisioni assunte su pressione dei grandi investitori, ma sono anche scelte suggerite, sostenute e ampiamente legittimate da élites intellettuali, che solo semplicisticamente possono essere considerate come un’emanazione delle élites economiche. Dal punto di vista di una storia culturale, ci si potrebbe chiedere per quale motivo simili posizioni non abbiano incontrato resistenze rilevanti, se non in ambienti marginali, e siano diventate maggioritarie nell’arco di alcuni decenni anche nelle comunità scientifiche occidentali. Ma avrebbe poco senso chiedersi se gli intellettuali abbiano svolto una funzione di pura ‘cinghia di trasmissione’ degli interessi dei gruppi finanziari, o se invece abbiano conservato una loro autonomia (più o meno relativa) anche in questa fase. Come sempre, quelle connessioni che è facile districare a livello teorico, risultano molto più ‘ingarbugliate’ nella pratica, tanto che tentare di sbrogliare la matassa degli interessi economici, delle tensioni ideologiche, delle posizioni intellettuali, per cercare di capire dove stia il bandolo, diventa un’operazione persino inutile, oltre che probabilmente impraticabile. Più semplicemente, si può forse ipotizzare che le misure che procedevano nel senso della ‘finanziarizzazione’, e le proposte teoriche che le legittimavano sotto il profilo teorico e politico, abbiano avuto la meglio solo perché, in quel momento specifico, ‘funzionavano’. In altre parole, quelle proposte risultavano molto più affascinanti di altre anche perché offrivano una via d’uscita alla crisi degli anni Settanta, e perché consentivano occasioni redditizie per quella massa di capitali che non trovavano più uno sbocco appetibile in investimenti produttivi. Così, non si può dimenticare come proprio la finanziarizzazione sia stata alla base della ‘ripresa’ (certo più apparente che reale) delle economie occidentali, oltre che della fine della Guerra fredda. Oggi i limiti di quel modello di crescita risultano piuttosto evidenti, e quasi nessuno è più disposto a esaltare in modo incondizionato i pregi di un capitalismo finanziario. Ma è ripercorrendo la genesi di quel processo, che diventa possibile capire anche il potere dell’élite contemporanea. Forse, proprio osservando il processo di finanziarizzazione dell’ultimo trentennio, il profilo delle nuove classi dirigenti globali diventa infatti addirittura più inquietante. E non tanto perché riveli il volto di un’oligarchia inattaccabile. Quanto perché – a dispetto di quanto possiamo sospettare – rischia piuttosto di mostrare come le élites contemporanee siano molto più simili a un gigante dai piedi d’argilla.
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